Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 64

Testo di pubblico dominio

pigliava due righe: Alvaro Filippo Maria Ferdinando Gargantas di Leyra. Da Palermo giunsero dei regali magnifici, dei gioielli e dei vestiti che asciugarono a poco a poco le lagrime della sposa, uno sfoggio di grandezze che la pigliava come una vertigine, che chiamava un pallido sorriso fin sulle labbra della mamma, e che lo zio marchese andava spampanando da per tutto. Solo don Gesualdo borbottava di nascosto. Si aspettavano gran cose per quello sposalizio. La Capitana mandò un espresso a Catania dal primo sarto. Le Zacco stettero otto giorni in casa a cucire. Però alle nozze non fu invitato nessuno: gli sposi vestiti da viaggio, i genitori, i testimoni, quattro candele e nessun altro, nella meschina chiesetta di Sant'Agata, dove s'era maritata Bianca. Quanti ricordi per la povera madre, la quale pregava inginocchiata dinanzi a quell'altare, coi gomiti sulla seggiola e il viso fra le mani! Fuori aspettava la lettiga che doveva portarsi via gli sposi. Fu una delusione e un malumore generale fra i parenti e in tutto il paese. Dei pettegolezzi e delle critiche che non finivano più intorno a quel matrimonio fatto come di nascosto. Della gente era andata a far visita ai Margarone e in casa Alòsi, per vedere se la sposa era rossa o pallida. La Capitana aveva un bel fare, un bel cercare di non darsi vinta, dicendo che quella era la moda di sposarsi adesso. Donna Agrippina rispose che a quel modo non le pareva nemmeno un sagramento, povera Isabella!... La Cirmena masticava altre cose fra i denti: - Come sua madre!... Vedrete che sarà fortunata perché è figlia di sua madre!... Ciolla che vide passare dalla piazza la lettiga si mise a gridare: - Gli sposi! Ecco la lettiga degli sposi che partono! - Poi andò a confidare di porta in porta, al Caffè, nella spezieria di Bomma: - È partita anche una lettera per don Corradino La Gurna... Sicuro! Una lettera per fuori regno. Me l'ha fatta vedere il postino in segretezza. Non so che dicesse; ma non mi parve scrittura della Cirmena. Avrei pagato qualche cosa per vedere che c'era scritto... La lettera diceva tante belle cose, per mandare giù la pillola, lei e il cuginetto che si disperava e penava lontano. "Addio! addio! Se ti ricordi di me, se pensi ancora a me, dovunque sarai, eccoti l'ultima parola di Isabella che amasti tanto! Ho resistito, ho lottato a lungo, ho sofferto... Ho pianto tanto! ho pianto tanto!... Addio! Partirò, andrò lontano da questi luoghi che mi parlano ancora di te!... Andrò lontano... Nelle feste, in mezzo alle pompe della capitale, dovunque sarò... nessuno vedrà il pallore sotto la mia corona di duchessa... Nessuno saprà quel che mi porto nel cuore... sempre, sempre!... Ricordati! ricordati!..." Parte quarta I Erano appena trascorsi sei mesi, quando sopravvennero altri guai a don Gesualdo. Isabella minacciava di suicidarsi; il genero aveva preso a viaggiare fuori regno, e faceva temere di voler intentare causa di separazione, per incompatibilità di carattere. Altre chiacchiere giunsero in segreto sino al povero padre, il quale corse a rotta di collo alla villa di Carini, dov'era confinata la duchessa per motivi di salute. Ritornò poi invecchiato di dieci anni, pigliandosela colla moglie che non capiva nulla, maledicendo in cuor suo la Cirmena e tutto il parentado che gli dava soltanto bocconi amari, costretto a correr dietro al notaio per accomodare la faccenda e placare il signor genero a furia di denari. Fu un gran colpo pel poveretto. Tacque alla moglie il vero motivo, per non affliggerla inutilmente; tenne tutto per sé; ma non si dava pace; parevagli che la gente lo segnasse a dito; sentivasi montare il sangue al viso quando ci pensava, da solo, o anche se incontrava quell'infame della Cirmena. Lui era un villano; non c'era avvezzo a simili vergogne! Intanto la figlia duchessa gli costava un occhio. Prima di tutto le terre della Canziria, d'Àlia e Donninga che le aveva assegnato in dote, e gli facevano piangere il cuore ogni qualvolta tornava a vederle, date in affitto a questo e a quello, divise a pezzi e bocconi dopo tanti stenti durati a metterle insieme, mal tenute, mal coltivate, lontane dall'occhio del padrone, quasi fossero di nessuno. Di tanto in tanto gli arrivavano pure all'orecchio altre male nuove che non gli lasciavano requie, come tafani, come vespe pungenti; dicevasi in paese che il signor duca vi seminasse a due mani debiti fitti al pari della grandine, la medesima gramigna che devastava i suoi possessi e si propagava ai beni della moglie peggio delle cavallette. Quella povera Canziria che era costata tante fatiche a don Gesualdo, tante privazioni, dove aveva sentito la prima volta il rimescolìo di mettere nella terra i piedi di padrone! Donninga per cui si era tirato addosso l'odio di tutto il paese! le buone terre dell'Àlia che aveva covato dieci anni cogli occhi, sera e mattina, le buone terre al sole, senza un sasso, e sciolte così che le mani vi sprofondavano e le sentivano grasse e calde al pari della carne viva... tutto, tutto se ne andava in quella cancrena! Come Isabella aveva potuto stringere la penna colle sue mani, e firmare tanti debiti? Maledetto il giorno in cui le aveva fatto imparare a scrivere! Sembravagli di veder stendere l'ombra delle ipoteche sulle terre che gli erano costate tanti sudori, come una brinata di marzo, peggio di un nebbione primaverile, che brucia il grano in erba. Due o tre volte, in circostanze gravi, era stato costretto a lasciarsi cavar dell'altro sangue. Tutti i suoi risparmi se ne andavano da quella vena aperta, le sue fatiche, il sonno della notte, tutto. E pure Isabella non era felice. L'aveva vista in tale stato, nella villa sontuosa di Carini! Indovinava ciò che doveva esserci sotto, quando essa scriveva delle lettere che gli mettevano addosso la febbre, l'avvelenavano coll'odore sottile di quei foglietti stemmati, lui che aveva fatto il cuoio duro anche alla malaria. Il signor duca invece trattava simili negozi per mezzo del notaro Neri - poiché non erano il suo forte. - E alla fine, quando mastro-don Gesualdo s'impennò sul serio, sbuffando, recalcitrando, gli fece dire: - Si vede che mio suocero, poveretto, non sa quel che ci vuole a mantenere la figliuola col decoro del nome che porta... - Il decoro?... Io me ne lustro gli stivali del decoro! Io mangio pane e cipolle per mantenere il lustro della duchea! Diteglielo pure al signor genero! In pochi anni s'è mangiato un patrimonio! Fu un casa del diavolo. Donna Bianca, la quale era assai malandata, e sputava sangue ogni mattina, fece una ricaduta che in quindici giorni la condusse in fin di vita. Nel paese ormai si sapeva ch'era tisica: tutti così quei Trao! una famiglia che si estingueva per esaurimento, diceva il medico. Soltanto il marito, ch'era sempre fuori, in faccende, occupato dai suoi affari, con tanti pensieri e tanti guai per la testa, si lusingava di farla guarire appena avrebbe potuto condursela a Mangalavite, in quell'aria balsamica che avrebbe fatto risuscitare un morto. Essa sorrideva tristamente e non diceva nulla. Era ridotta uno scheletro, docile e rassegnata al suo destino, senza aspettare o desiderare più nulla. Soltanto avrebbe voluto rivedere la figliuola. Suo marito glielo aveva anche promesso. Ma siccome erano in dissapore col genero non ne aveva più parlato. Isabella prometteva sempre di venire, da un autunno all'altro, ma non si decideva mai, come avesse giurato di non metterci più i piedi in quel paese maledetto, e se lo fosse tolto dal cuore interamente. A misura che le mancavano le forze, Bianca sentiva dileguare anche quella speranza, come la vita che le sfuggiva, e sfogavasi a ruminare dei progetti futuri, vaneggiando, accendendosi in viso delle ultime fiamme vitali, con gli occhi velati di lagrime che volevano sembrare di tenerezza ed erano di sconforto: - Farò questo! farò quell'altro! - Faceva come quegli uccelletti in gabbia i quali provano il canto della primavera che non vedranno. Il letto le mangiava le

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Argomenti: due mani,    pallido sorriso,    cuoio duro,    malumore generale

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