Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 52

Testo di pubblico dominio

sulla soglia, in maniche di camicia, giallo ed allampanato, guardando stupefatto attraverso gli occhiali la sorella e la nipote. Sul lettuccio disfatto c'era ancora la vecchia palandrana di don Diego che stava rattoppando. L'avvolse in fretta, insieme a un fagotto d'altri cenci, e la cacciò nel cassettone. - Ah!... sei tu, Bianca?... che vuoi?... Indi accorgendosi che teneva ancora l'ago in mano, se lo mise in tasca, vergognoso, sempre con quel gesto che sembrava meccanico. - Ecco vostra nipote... - balbettò la sorella con un tremito nella voce. - Isabella... vi rammentate?... È stata in collegio a Palermo... Egli fissò sulla ragazza quegli occhi azzurri e stralunati che fuggivano di qua e di là, e mormorò: - Ah!... Isabella?... mia nipote?... Guardava inquieto per la stanza, e di tanto in tanto, come vedeva un oggetto dimenticato sul tavolino o sulla seggiola zoppa, del refe sudicio, un fazzoletto di cotone posto ad asciugare al sole, correva subito a nasconderli. Poi si mise a sedere sulla sponda del lettuccio, fissando l'uscio. Mentre Bianca parlava, col cuore stretto, egli seguitava a volgere intorno gli occhi sospettosi, pensando a tutt'altro. A un tratto andò a chiudere a chiave il cassetto della scrivania. - Ah!... mia nipote, dici?... Fissò di nuovo sulla giovinetta lo stesso sguardo esitante, e chinò gli occhi a terra. - Somiglia a te... tale e quale... quand'eri qui... Sembrava che cercasse le parole, cogli occhi erranti, evitando quelli della sorella e della nipote, con un tremito leggiero nelle mani, il viso smorto e istupidito. Un istante, mentre Bianca gli parlava all'orecchio, supplichevole, quasi le spuntassero le lagrime, egli di curvo che era si raddrizzò così che parve altissimo, con un'ombra negli occhi chiari, un rimasuglio del sangue dei Trao che gli colorava il viso scialbo. - No... no... Non voglio nulla... Non ho bisogno di nulla... Vattene ora, vattene... Vedi... ho tanto da fare... Una cosa che stringeva il cuore. Una rovina ed un'angustia che umiliavano le memorie ambiziose, le fantasie romantiche nate nelle confidenze immaginarie colle amiche del collegio, le illusioni di cui era piena la bizzarra testolina della fanciulla, tornata in paese coll'idea di rappresentarvi la prima parte. Il lusso meschino della zia Sganci, la sua casa medesima fredda e malinconica, il palazzo cadente dei Trao che aveva spesso rammentato laggiù con infantile orgoglio, tutto adesso impicciolivasi, diventava nero, povero, triste. Lì, dirimpetto, era la terrazza dei Margarone, che tante volte aveva rammentato vasta, inondata di sole, tutta fiorita, piena di ragazze allegre che la sbalordivano allora, bambina, collo sfoggio dei loro abiti vistosi. Com'era stretta e squallida invece, con quell'alto muro lebbroso che l'aduggiava! e come era divenuta vecchia donna Giovannina, che rivedeva seduta in mezzo ai vasi di fiori polverosi, facendo la calza, vestita di nero, enorme! In fondo al vicoletto rannicchiavasi la casuccia del nonno Motta. Allorché il babbo ve la condusse trovarono la zia Speranza che filava, canuta, colle grinze arcigne. C'erano dei mattoni smossi dove inciampavasi, un ragazzaccio scamiciato il quale levò il capo da un basto che stava accomodando, senza salutarli. Mastro Nunzio gemeva in letto coi reumatismi, sotto una coperta sudicia: - Ah, sei venuto a vedermi? Credevi che fossi morto? No, no, non son morto. È questa la tua ragazza? Me l'hai portata qui per farmela vedere?... È una signorina, non c'è che dire! Gli hai messo anche un bel nome! Tua madre però si chiamava Rosaria! Lo sai? Scusatemi, nipote mia, se vi ricevo in questo tugurio... Ci son nato, che volete... Spero di morirci... Non ho voluto cambiarlo col palazzo dove pretendeva chiudermi vostro padre... Io sono avvezzo ad uscir subito in istrada appena alzato... No, no, è meglio pensarci prima. Ciascuno com'è nato. - Speranza grugniva delle altre parole che non si udivano bene. Il ragazzaccio li accompagnò cogli occhi sino all'uscio, quando se ne andarono. Intanto incalzavano le voci di colèra. A Catania c'era stata una sommossa. Giunse da Lentini don Bastiano Stangafame insieme a donna Fifì la quale pareva avesse già il male addosso, verde, impresciuttita, narrando cose che dovevano averle fatto incanutire i capelli in ventiquattr'ore. A Siracusa una giovinetta bella come la Madonna, la quale ballava sui cavalli ammaestrati in teatro, e andava spargendo il colèra con quel pretesto, era stata uccisa a furor di popolo. La gente insospettita stava a vedere, facendo le provviste per svignarsela dal paese, al primo allarme, e spiando ogni viso nuovo che passasse. In quel tempo erano capitati due merciai che portavano nastri e fazzoletti di seta. Andavano di casa in casa a vendere la roba, e guardavano dentro gli usci e nei cortili. Le Margarone che spendevano allegramente per azzimarsi, quasi fossero ancora di primo pelo, fecero molte compere; anzi non trovandosi denari spiccioli, quei galantuomini dissero che sarebbero ripassati a prenderli il giorno dopo. Invece spuntò il giorno del Giudizio Universale. Ciolla era andato a ricorrere dal giudice che gli avevano avvelenate le galline: le portava a prova in mano, ancora calde. Tornò in casa don Nicolino scalmanato, ordinando alle sorelle di sprangare usci e finestre e non aprire ad anima viva. Il dottor Tavuso fece chiudere anche lo sportello della cisterna. I galantuomini, rammentandosi il bel soggetto ch'era il Ciolla, quello ch'era stato in Castello colle manette, sedici anni prima, si armarono sino ai denti, e si misero a perlustrare il paese, se mai gli tornava il ghiribizzo di voler pescare nel torbido. La parola d'ordine era, sparargli addosso senza misericordia al primo allarme. I due merciai non si videro più. Prima di sera cominciarono a sfilare le vetture cariche che scappavano dal paese. Dopo l'avemaria non andava anima viva per le strade. Giunse tardi una lettiga, che portava don Corrado La Gurna, vestito di nero, col fazzoletto agli occhi. I cani abbaiarono tutta la notte. Il panico poi non ebbe limiti allorché si vide scappare la baronessa Rubiera, paralitica, su di una sedia a bracciuoli, poiché nella portantina non entrava neppure, tanto era enorme, portata a fatica da quattr'uomini, colla testa pendente da un lato, il faccione livido, la lingua pavonazza che usciva a metà dalle labbra bavose, gli occhi soltanto vivi e inquieti, le mani da morta agitate da un tremito continuo. E dietro, il baronello invecchiato di vent'anni, curvo, grigio, carico di figliuoli, colla moglie incinta ancora, e gli altri figli del primo letto. Empivano la strada dove passavano: uno sgomento. La povera gente che era costretta a rimanere in paese stava a guardare atterrita. Nelle chiese avevano esposto il Sacramento. Tacquero allora vecchi rancori, e si videro fattori restituire il mal tolto ai loro padroni. Don Gesualdo aprì le braccia e i magazzini ai poveri e ai parenti; tutte le sue case di campagna alla Canziria e alla Salonia. A Mangalavite, dove aveva pure dei casamenti vastissimi, parlò di riunire tutta la famiglia. - Ora corro da mio padre per cercare d'indurlo a venire con noi. Tu intanto va da tuo fratello, - disse a Bianca. - Fagli capire che adesso son tempi da mettere una pietra sul passato, gli avessi fatto anche un tradimento... Abbiamo il colèra sulle spalle... Il sangue non è acqua infine! Non possiamo lasciare quel povero vecchio solo in mezzo al colèra... Mi pare che la gente avrebbe motivo di sparlare dei fatti nostri, eh?... - Voi avete il cuore buono! - balbettò la moglie sentendosi intenerire. - Voi avete il cuore buono! Ma don Ferdinando non si lasciò persuadere. Era occupatissimo ad incollare delle striscie di carta a tutte le fessure delle imposte, con un pentolino appeso al collo, arrampicato su di una scala a piuoli. - Non posso lasciar la casa, - rispose. - Ho tanto da fare!... Vedi quanti buchi?... Se viene il colèra... Bisogna tapparli tutti... Inutilmente

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Argomenti: lusso meschino,    muro lebbroso,    bel soggetto,    moglie incinta

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