Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 50

Testo di pubblico dominio

delle mamme, in parlatorio. Fra tutte quelle piccine, in tutte le famiglie, succedeva lo stesso diavoleto che mastro-don Gesualdo aveva fatto nascere nei grandi e nel paese. Non si sapeva più chi poteva spendere e chi no. Una gara fra i parenti a buttare il denaro in frascherie, e una confusione generale fra chi era stato sempre in prima fila, e chi veniva dopo. Quelli che non potevano, proprio, o si seccavano a spendere l'osso del collo pel buon piacere di mastro-don Gesualdo, si lasciavano scappare contro di lui certe allusioni e certi motteggi che fermentavano nelle piccole teste delle educande. Alla guerra intestina pigliavano parte anche le monache, secondo le relazioni, le simpatie, il partito che sosteneva oppure voleva rovesciare la superiora. Ci si accaloravano fin la portinaia, fin le converse che si sentivano umiliate di dover servire senz'altro guadagno anche la figliuola di mastro-don Gesualdo, uno venuto su dal nulla, come loro, arricchito di ieri. Le nimicizie di fuori, le discordie, le lotte d'interessi e di vanità, passavano la clausura, occupavano le ore d'ozio, si sfogavano fin là dentro in pettegolezzi, in rappresaglie, in parole grosse. - Sai come si chiama tuo padre? mastro-don Gesualdo. - Sai cosa succede a casa tua? che hanno dovuto vendere una coppia di buoi per seminare le terre. - Tua zia Speranza fila stoppa per conto di chi la paga, e i suoi figliuoli vanno scalzi. - A casa tua c'è stato l'usciere per fare il pignoramento. - La piccola Alimena arrivò a nascondersi nella scala del campanile, una domenica, per vedere se era vero che il padre d'Isabella portasse la berretta. Egli trovava la sua figliuoletta ancora rossa, col petto gonfio di singhiozzi, volgendo il capo timorosa di veder luccicare dietro ogni grata gli occhietti maliziosi delle altre piccine, guardandogli le mani per vedere se davvero erano sporche di calcina, tirandosi indietro istintivamente quando nel baciarla la pungeva colla barba ispida. Tale e quale sua madre. - Così il pesco non s'innesta all'ulivo. - Tante punture di spillo; la stessa cattiva sorte che gli aveva attossicato sempre ogni cosa giorno per giorno; la stessa guerra implacabile ch'era stato obbligato a combattere sempre contro tutto e contro tutti; e lo feriva sin lì, nell'amore della sua creatura. Stava zitto, non lagnavasi, perché non era un minchione e non voleva far ridere i nemici; ma intanto gli tornavano in mente le parole di suo padre, gli stessi rancori, le stesse gelosie. Poi rifletteva che ciascuno al mondo cerca il suo interesse, e va per la sua via. Così aveva fatto lui con suo padre, così faceva sua figlia. Così dev'essere. Si metteva il cuore in pace, ma gli restava sempre una spina in cuore. Tutto ciò che aveva fatto e faceva per la sua figliuola l'allontanava appunto da lui: i denari che aveva speso per farla educare come una signora, le compagne in mezzo alle quali aveva voluto farla crescere, le larghezze e il lusso che seminavano la superbia nel cuore della ragazzina, il nome stesso che le aveva dato maritandosi a una Trao - bel guadagno che ci aveva fatto! - La piccina diceva sempre: - Io son figlia della Trao. Io mi chiamo Isabella Trao. La guerra si riaccese più viva fra le ragazze quando si maritò don Ninì Rubiera: - S'è vero che siete parenti, perché tuo zio non ti ha mandato i confetti? Vuol dire che voialtri non vi vogliono per parente. - L'Isabellina, che rispondeva già come una grande, ribatté: - Mio padre me li comprerà lui i confetti. Ci siamo guastati coi Rubiera perché ci devono tanti denari. - La figlia della ceraiuola, ch'era del suo partito, aggiunse tante altre storie: - Il baronello era uno spiantato. La Margarone non aveva più voluto saperne. Sposava donna Giuseppina Alòsi, più vecchia di lui, perché non aveva trovato altro, per amor dei denari: tutto ciò che narravasi nella bottega di sua madre, in ogni caffè, in ogni spezieria, di porta in porta. Nel paese non si parlava d'altro che del matrimonio di don Ninì Rubiera. - Un matrimonio di convenienza! - diceva la signora Capitana che parlava sempre in punta di forchetta. Cogli anni, la Capitana aveva preso anche i vizii del paese; occupavasi dei fatti altrui ora che non aveva da nasconderne dei propri. Allorché incontrava il cavalier Peperito gli faceva un certo visetto malizioso che la ringiovaniva di vent'anni, dei sorrisi che volevano indovinare molte cose, scrollando il capo, offrendosi graziosamente ad ascoltare le confidenze e gli sfoghi gelosi, minacciando il cavaliere col ventaglio, come a dirgli ch'era stato un gran discolaccio lui, e se si lasciava adesso portar via l'amante era segno che ci dovevano essere state le sue buone ragioni... prima o poi... - No! - ribatteva Peperito fuori della grazia di Dio. - Né prima né poi! Questo potete andare a dirglielo a donna Giuseppina! Se non ho potuto comandare da padrone non voglio servire nemmeno da comodino, capite?... fare il gallo di razza... capite? Su di ciò donna Giuseppina potrà mettersi il cuore in pace! Adesso sciorinava in piazza tutte le porcherie dell'Alòsi, che se vi mandava a regalare per miracolo un paniere d'uva voleva restituito il paniere; e vendeva sottomano le calze che faceva, delle calze da serva grosse un dito, - essa gliele aveva fatte anche vedere sulla forma per stuzzicarlo... per strappargli ciò che faceva comodo a lei... Ma lui, no!... Insomma, andava raccontandone di cotte e di crude. Corsero anche delle sante legnate al Caffè dei Nobili. Ciolla gli stava alle calcagna per raccogliere i pettegolezzi e portarli in giro alla sua volta. Un giorno poi fu una vera festa per lui, quando si vide arrivare in paese la signora Aglae che veniva insieme al signor Pallante a fare uno scandalo contro il barone Rubiera, a riscuotere ciò che le spettava, se il seduttore non voleva vedersela comparire dinanzi all'altare. Essa giungeva apposta da Modica, sputando fiele, incerettata, dipinta, carica di piume di gallo e di pezzi di vetro, tirandosi dietro la prova innocente della birbonata di don Ninì, una bambinella ch'era un amore. Così la gente diceva che don Ninì era sempre stato un donnaiuolo, e se sposava l'Alòsi, che avrebbe potuto essergli madre, ci dovevano essere interessi gravi. Chi spiegava la cosa in un modo e chi in un altro. Il baronello, quelli che s'affrettarono a fargli i mirallegro onde tirargli di bocca la verità vera, se li levò dai piedi in poche parole. La Sganci che aveva combinato il negozio stava zitta colle amiche le quali andavano apposta a farle visita. Don Gesualdo ne sapeva forse più degli altri, ma stringevasi nelle spalle e se la cavava con simili risposte: - Che volete? Ciascuno fa il suo interesse. Vuol dire che il barone Rubiera ci ha trovato il suo vantaggio a sposare la signora Alòsi. La verità era che don Ninì aveva dovuto pigliarsi l'Alòsi per salvare quel po' di casa che don Gesualdo voleva espropriargli. È vero che adesso era diventato giudizioso, tutto dedito agli affari; ma sua madre, sepolta viva nel seggiolone, non lo lasciava padrone di un baiocco; si faceva dar conto di tutto; voleva che ogni cosa passasse sotto i suoi occhi; senza poter parlare, senza potersi muovere, si faceva ubbidire dalla sua gente meglio di prima. E attaccata alla sua roba come un'ostrica, ostinandosi a vivere per non pagare. Il debito intanto ingrossava d'anno in anno: una cosa che il povero don Ninì ci perdeva delle nottate intere, senza poter chiudere occhio, alle volte: e alla scadenza, capitale e usura rappresentavano una bella somma. Il canonico Lupi, che andò in nome del baronello a chiedere dilazione al pagamento, trovò don Gesualdo peggio di un muro: - A che giuoco giochiamo, canonico mio? Sono più di nove anni che non vedo né frutti né capitale. Ora mi serve il mio denaro, e voglio esser pagato. Don Ninì pel bisogno scese anche all'umiliazione d'andare a pregare la cugina Bianca, dopo tanto tempo. La prese appunto da lontano. - Tanto tempo che non

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Argomenti: tanto tempo,    povero don,    petto gonfio,    confusione generale,    guerra implacabile

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