Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 63

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bello, mentre la statua dell'Evangelista correva balzelloni da Gesù a Maria, e il popolo gridava: viva Dio resuscitato! capitò la carrozza nuova di don Gesualdo Motta. Lui con la giamberga dai bottoni d'oro e il solitario al petto della camicia, la moglie in gala anche lei, poveretta, che la veste nuova le piangeva addosso, allampanata, ridotta uno scheletro, e la figliuola con un vestito nuovo, fatto venire apposta da Palermo. La folla si apriva per lasciarli passare, senza bisogno di spintoni. Dei curiosi guardavano a bocca aperta. Lo stesso duca domandò chi fossero: - Ah, una Trao! Si vede subito, quantunque abbia l'aria un po' sofferente, povera signora. - Il marchese Limòli ringraziava lui, con un cenno del capo, e lo presentò alla nipote. Il duca e il balì di Leyra fecero un gruppo a parte, sul marciapiede del Caffè dei Nobili, colla famiglia di don Gesualdo e il marchese Limòli. Tutt'intorno c'era un cerchio di sfaccendati. Il barone Zacco attaccò discorso col cocchiere per scavare cosa c'era sotto. Mèndola fingeva d'accarezzare i cavalli. Canali ammiccava di qua e di là: - Guardate un po', signori miei, che ruota è il mondo! - Nessuno badava più alla processione. C'era un bisbiglio in tutto il Caffè. Don Ninì Rubiera, da lontano, col cappello in cima al bastone appoggiato alla spalla, si morsicava le labbra dal dispetto, pensando a quel che era toccato a lui invece, donna Giuseppina Alòsi in moglie, una mandra di figliuoli, la lite per la casa che mastro-don Gesualdo voleva acchiapparsi col pretesto del debito, dopo tanto tempo... La moglie al vederlo così stralunato, cogli occhi fissi addosso a sua cugina, gli piantò una gomitata aguzza nelle costole. - Quando volete finirla?... È uno scandalo!... I vostri figliuoli stessi che vi osservano! Vergogna! - Ma sei pazza? - rispose lui. - Diavolo! Ho altro pel capo adesso! - Non vedi che ha già i capelli bianchi? ch'è una mummia?... Sei pazza? Egli pure era invecchiato, floscio, calvo, panciuto, acceso in viso, colle gote ed il naso ricamati di filamenti sanguigni che lo minacciavano della stessa malattia di sua madre. Ora si guardavano come due estranei, lui e Bianca, indifferenti, ciascuno coi suoi guai e i suoi interessi pel capo. Anche le male lingue, dopo tanto tempo, avevano dimenticato le chiacchiere corse sui due cugini. Però invidiavano mastro-don Gesualdo il quale era arrivato a quel posto, e donna Bianca che aveva fatto quel gran matrimonio. La sua figliuola sarebbe arrivata chissà dove! Donna Agrippina Macrì e le cugine Zacco saettavano occhiate di fuoco sul cappellino elegante d'Isabella, e sui salamelecchi che le faceva il duca di Leyra, inguantato, con un cravattone di raso che gli reggeva il bel capo signorile, giocherellando con un bastoncino sottile che aveva il pomo d'oro. La signora Capitana fece osservare a don Mommino Neri, il quale era diventato un rompicollo, dopo la storia della prima donna: - È inutile! Basta guardarlo un momento, per saper con chi avete da fare. Dirà magari delle sciocchezze adesso... Ma è il modo in cui le dice!... Ogni parola come se ve la mettesse in un vassoio... Il signor duca andò poi a presentare i suoi omaggi in casa Motta. Don Gesualdo si fece trovare nel salotto buono. Avevano lavorato tutto il giorno a dar aria e spolverare, le serve, lui, mastro Nardo. Il signor duca, colla parlantina sciolta, discorreva un po' di tutto, di agricoltura col padrone di casa, di mode con le signore, di famiglie antiche col marchese Limòli. Egli aveva sulla punta delle dita tutto l'almanacco delle famiglie nobili dell'isola. Arrivò anche a confidare che la sua era originaria del paese. Desiderava fare il suo dovere con don Ferdinando Trao, e visitare il palazzo, che doveva essere interessantissimo. Con la ragazza, di sfuggita, lasciò cadere il discorso sulle opere allora in voga; raccontò qualche fatterello della società; narrò aneddoti del tempo in cui era a Palermo la corte, la regina Carolina, gli inglesi: un mondo di chiacchiere, come una lanterna magica nella quale passavano delle gran dame, del lusso e delle feste. Nell'andarsene baciò la mano a donna Bianca. Per le scale, dal pollaio, sull'uscio della legnaia, tutta la gente di casa s'affollava per vederlo passare. Dopo, la sera non si fece altro che parlare di lui, in cucina, fin le serve, e mastro Nardo, il quale sgranava gli occhi. Il balì di Leyra e il marchese Limòli poi avevano intavolato un altro discorso, così, a fior di labbra, tenendosi sulle generali. Il giorno dopo intervenne anche il duca, il quale confessò prima di tutto ch'era innamorato della ragazza, un vero fiorellino dei campi, una violetta nascosta; e dichiarò sorridendo, che quanto al resto... d'affari voleva dire... non se n'era occupato mai, per sua disgrazia!... non era il suo forte, e aveva pregato il notaro Neri di far lui... Un vero usuraio, quel notaro, sottile, avido, insaziabile. Don Gesualdo avrebbe preferito mille volte trattare il negozio faccia a faccia col genero, da galantuomini. - No, no, caro suocero. Non è la mia partita. Non me ne intendo. Quello che farete voialtri sarà ben fatto. Quanto a me, il tesoro che vi domando è vostra figlia. Però le trattative tiravano in lungo. Mastro-don Gesualdo cercava difendere la sua roba, vederci chiaro in quella faccenda, toccar con mano che quanto ci metteva il signor genero nell'altro piatto della bilancia fosse tutto oro colato. Il duca aveva dei gran possessi, è vero, mezza contea; ma dicevasi pure che ci fossero dei gran pasticci, delle liti, delle ipoteche. Del notaro Neri non poteva fidarsi. L'altro sensale, il marchese Limòli, non aveva saputo badare nemmeno ai suoi interessi. Voleva intromettercisi il canonico Lupi, protestando l'amicizia antica. Ma lui rispose: - Vi ringrazio! Grazie tante, canonico! Mi è bastato una volta sola! Non voglio abusare... - Tutti miravano alla sua roba. Ci furono dei tira e molla, delle difficoltà che sorgevano a ogni passo, delle vecchie carte in cui ci si smarriva. Intanto la figliuola, dall'altra parte, aveva sempre quell'altro in testa. Scongiurava il babbo e la mamma che non volessero sacrificarla. Andava a piangere dai parenti, e a supplicare che l'aiutassero: - Non posso! non posso! - Ai piedi del confessore aprì il suo cuore, tutto! il peccato mortale in cui era!... - Quel servo di Dio non capiva nulla. Badava solo a raccomandarle di non cascarci più e le metteva il cuore in pace coll'assoluzione. La poveretta arrivò a scappare in casa dello zio Trao, onde buttarsi nelle sue braccia. - Zio, tenetemi qui! Salvatemi voi. Non ho altri al mondo! Sono sangue vostro. Non mi mandate via! Don Ferdinando era malato, coll'asma. Non poteva parlare, non capiva nulla, del resto. Faceva dei gesti vaghi colla mano scarna, e chiamava in aiuto Grazia, come un bambino, sbigottito da ogni viso nuovo che vedesse. - Sì, tenetemi qui in luogo di Grazia. Vi servirò colle mie mani. Non mi mandate via. Vogliono maritarmi per forza!... in peccato mortale!... Il vecchio allora ebbe come un ricordo negli occhi appannati, nel viso smorto e rugoso. Tutti i peli grigi della barba ispida parvero trasalire. - Anche tua madre s'è maritata per forza... Diego non voleva... Vattene, ora... se no viene tuo padre a condurti via di qua!... Vattene, vattene... Lo zio marchese, uomo di mondo, che ne sapeva più di tutti sulle chiacchiere raccolte a casaccio, prese a quattr'occhi don Gesualdo: - Insomma, volete capirla? Vostra figlia dovete maritarla subito. Datela a chi vi piace; ma non c'è tempo da perdere. Avete capito? - Eh?... Come?... - balbettò il povero padre sbiancandosi in viso. - Sicuro!... Avete trovato un galantuomo che se la piglia... in buona fede... Ma non potete pretendere troppo infine da lui!... Talché don Gesualdo, stretto da tutte le parti, tirato pei capelli, si lasciò aprir le vene, e mise il suo nome in lettere di scatola al contratto nuziale: Gesualdo Motta, sotto la firma del genero che

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Argomenti: povero padre,    peccato mortale,    cappellino elegante,    bastoncino sottile

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