Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 76

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torbidi Bianca, Diodata, mastro Nunzio, degli altri ancora, un altro se stesso che affaticavasi e s'arrabattava al sole e al vento, tutti col viso arcigno, che gli sputavano in faccia: - Bestia! bestia! Che hai fatto? Ben ti sta! A giorno tornò Grazia per aiutare un po', sfinita, ansando se smuoveva una seggiola, fermandosi ogni momento per piantarsi dinanzi a lui colle mani sul ventre enorme, e ricominciare le lagnanze contro i parenti di don Ferdinando che le lasciavano quel poveretto sulle spalle, lesinandogli il pane e il vino. - Sissignore, l'hanno tutti dimenticato, lì nel suo cantuccio, come un cane malato!... Ma io il cuore non mi dice... Siamo stati sempre vicini... buoni servi della famiglia... una gran famiglia... Il cuore non mi dice, no! Dietro di lei veniva una masnada di figliuoli che mettevano ogni cosa a soqquadro. Poi sopraggiunse Speranza strepitando che voleva vedere suo fratello, quasi egli stesse per rendere l'anima a Dio. - Lasciatemi entrare! È sangue mio infine! Ora ch'è in questo stato mi rammento solo di essere sua sorella. - Lei, il marito, i figliuoli. Mise a rumore tutto il vicinato. Don Gesualdo lasciò il letto sbuffando. Non lo avrebbero tenuto le catene. - Voglio tornare a casa mia! Che ci sto a fare qui? Tanto, lo sanno tutti!... A gran stento lo indussero ad aspettare la sera. E dopo l'avemaria, quatti quatti, Burgio e tutti i parenti l'accompagnarono a casa. Speranza volle restare a guardia del fratello, giacché trovavasi tanto malato, e per miracolo quella notte non gli avevano messo ogni cosa a sacco e ruba. - Non vuol dire se siamo in lite. Al bisogno si vede il cuore della gente. Gli interessi sono una cosa, e l'amore è un'altra. Abbiamo litigato, litigheremo sino al giorno del Giudizio, ma siamo figli dello stesso sangue! - Protestò che l'avrebbe tenuto meglio delle pupille dei propri occhi, lui e la sua roba. Gli schierò dinanzi al letto marito e figliuoli che giravano intorno sguardi cupidi, ripetendo: - Questo è il sangue vostro! Questi non vi tradiscono! - Lui, combattuto, stanco, avvilito, non ebbe neanche la forza di ribellarsi. Così, a poco a poco, gli si misero tutti quanti alle costole. I nipoti scorazzando per la casa e pei poderi, spadroneggiando, cacciando le mani da per tutto. La sorella, colle chiavi alla cintola, frugando, rovistando, mandando il marito di qua e di là, pei rimedi, e a coglier erbe medicinali. Come massaro Fortunato si lagnava di non aver più le gambe di vent'anni per affacchinarsi a quel modo, essa lo sgridava: - Che volete? Non lo fate per amore di vostro cognato? Carcere, malattie e necessità si conosce l'amistà. Lei non aveva suggezione di Ciolla e di tutti gli altri della sua risma. Una volta che Vito Orlando pretese di venire a fare una sbravazzata, colla pistola in tasca, per liquidare certi conti con don Gesualdo, essa lo inseguì giù per le scale, buttandogli dietro una catinella d'acqua sporca. Lo stesso canonico Lupi aveva dovuto mettersi la coda fra le gambe, e non era tornato a fare il generoso colla roba altrui, ora che Ciolla e i più facinorosi erano partiti a cercar fortuna in città, con bandiere e trombette. Il canonico, onde chetare gli altri, aveva preso il ripiego di sortire in processione, colla disciplina e la corona di spine; e così gli altri si sfogavano in feste e quarant'ore, mentre lui andava predicando la fratellanza e l'amore del prossimo. - Però un baiocco non lo mette fuori! - sbraitava comare Speranza. - E questo va bene. Ma se torna a fare il camorrista, qui da noi, lo ricevo come va... tal quale Vito Orlando! Intanto la casa di don Gesualdo era messa a sacco e ruba egualmente. Vino, olio, formaggio, pezze di tela anche, sparivano in un batter d'occhio. Dalla Canziria e da Mangalavite giungevano fattori e mezzadri a reclamare contro i figliuoli di massaro Fortunato Burgio che comandavano a bacchetta, e saccheggiavano i poderi dello zio, come fosse già roba senza padrone. Lui, poveraccio, confinato in letto, si rodeva in silenzio; non osava ribellarsi al cognato e alla sorella; pensava ai suoi guai. Ci aveva un cane, lì nella pancia, che gli mangiava il fegato, il cane arrabbiato di San Vito martire, che lo martirizzava anche lui. Inutilmente Speranza, amorevole, cercava erbe e medicine, consultava Zanni e persone che avevano segreti per tutti i mali. Ciascuno portava un rimedio nuovo, dei decotti, degli unguenti, fino la reliquia e l'immagine benedetta del santo, che don Luca volle provare colle sue mani. Non giovava nulla. L'infermo badava a ripetere: - Non è niente... un po' di colica. Ho avuto dei dispiaceri. Domani mi alzerò... Ma non ci credeva più neppur lui, e non si alzava mai. Era ridotto quasi uno scheletro, pelle e ossa; soltanto il ventre era gonfio come un otre. Nel paese si sparse la voce che era spacciato: la mano di Dio che l'agguantava e l'affogava nelle ricchezze. Il signor genero scrisse da Palermo onde avere notizie precise. Parlava anche d'affari da regolare, e di scadenze urgenti. Nella poscritta c'erano due righe sconsolate d'Isabella, la quale non si era ancora riavuta dal gran colpo che aveva ricevuto poco prima. Speranza, che era presente mentre il fratello s'inteneriva sulla lettera, sputò fuori il veleno: - Ecco! Ora vi guastate il sangue, per giunta! Potreste andarvene all'altro mondo... solo e abbandonato, come uno che non ha né possiede!... Chi vi siete trovato accanto nel bisogno, ditelo? Vostra figlia vi manda soltanto belle parole... Suo marito però va al sodo! Don Gesualdo non rispose. Ma di nascosto, rivolto verso il muro, si mise a piangere cheto cheto. Sembrava diventato un bambino. Non si riconosceva più. Allorché Diodata, sentendo ch'era tanto malato, volle andare a visitarlo e a chiedergli perdono per la mancanza che gli avevano fatto i suoi ragazzi, la notte della sommossa, rimase di stucco al vederlo così disfatto, che puzzava di sepoltura, e gli occhi che a ogni faccia nuova diventavano lustri lustri. - Signor don Gesualdo... son venuta a vedervi perché mi hanno detto che siete in questo stato... Dovete perdonare... a quegli screanzati che vi hanno offeso... Ragazzi senza giudizio... Si son lasciati prendere in mezzo, senza sapere quello che facessero... Dovete perdonare per amor mio, signor don Gesualdo!... E si vedeva che parlava sincera, la poveretta, con quel viso, mandando giù, per nasconderle, le lagrime che a ogni parola le tornavano agli occhi, cercando di pigliargli la mano per baciargliela. Egli faceva un gesto vago, e scuoteva il capo, come a dire che non gliene importava, oramai. In quella sopravvenne Speranza, e fece una partaccia a quella sfacciata che veniva a tentarle il fratello in fin di vita, per cavargli qualcosa, per pelarlo sino all'ultimo. Una sanguisuga. Ci s'era ingrassata alle spalle di lui! Non le bastava? Ora calavano i corvi, all'odor del carname. Il malato chiudeva gli occhi per sfuggire quel supplizio, e agitavasi nel letto come al sopraggiungere di un'altra colica. Talché Diodata se ne andò senza poterlo salutare, a capo chino, stringendosi nella mantellina. Speranza tornò al fratello, tutta amorevole e sorridente. - Per assistervi adesso ci avete qui noi... Non vi lasceremo solo, non temete... Tutto ciò che avete bisogno... Comandate. Che ne fareste adesso di quella strega? Vi mangerebbe anima e corpo. Neanche il viatico potreste ricevere, con quello scandalo in casa! Lei lo assisteva meglio di una serva, e lo curava con amore, senza guardare a spesa né a fatiche. Vedendo che nulla giovava, arrivò a chiamare il figlio di Tavuso, il quale tornava fresco fresco da Napoli, laureato in medicina, - un ragazzotto che non aveva ancora peli al mento e si faceva pagare come un principe. - Però don Gesualdo gli disse il fatto suo, al vedergli metter mano alla penna per scrivere le solite imposture: - Don Margheritino, io vi ho visto nascere! A me scrivete la ricetta? Per chi mi pigliate, amico caro! - Allora, - ribatté il dottorino

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