Storia di un'anima di Ambrogio Bazzero pagina 59

Testo di pubblico dominio

dicendo:—Qui fra i monti si fa presto sera. Almeno domani la Sagra sarà finita, e tutto sarà in pace per la mia cura felice. Che festa è quella d'oggi sul calendario?—Sì, le mie signore lettrici: a 6.30 le campane di Recoaro tampellano giù nella vallata con un suono maestoso e lieto: sulle allee trottano a torme gli asinelli bardati, e i mulattieri vociano nel loro festosissimo dialetto; davanti alle cento trabacche variopinte una folla oziosa brulica con un ronzio da vincere la voce del Prechel dirocciante nelle tane dell'Agno: là le grida dei venditori e le risa delle compratici: qui un'ondata di musica e un acciottolio di tazze da caffè e… È appunto qui che proprio il nuovo arrivato non s'arrischia a dare un'occhiata: ma è appunto qui per sua condanna che deve discendere dalla vettura, e sgranchirsi, e pigliarsi il fascio dei paracqua, dei parasole, dei bastoni, e far calare le non stemmate valigie, e cavare di tasca il telegramma del Giorgetti che ieri gli assicurava una camera… ritarda persino il maggiordomo! Quelle 6,30! benedetta ora per gli stomachi deboli! Proprio sotto la verandah d'ingresso v'è il crocchio del dopopranzo, le ciarle graziose, i bisbigli crudeli, i commenti arguti. Qui le scarpine proterve che batterebbero i tacchi anche sui frantumi di un paradiso, pur di correre ad un trionfo d'orgoglio: le calze nere e bianche, e carnicine, quanto pii schiette, tanto più superbe: qui la seta stupenda, i percali capricciosi, i velluti, i merletti antichi, le foggie studiatissime e le semplicità insidiose, i colori, i profumi, le linee olimpiche e le birichine audacie del Watteau: qui le candide manine straricche di anella, e le braccia nude, dal colore della cardenia, misteriosamente affogate nelle trine e roseamente tormentate dalla depressione dell'oro massiccio dei braccialetti… Il nuovo arrivato non ha coraggio di arrischiare un solo sguardo su quei volti femminili, e maledicendo al suo stomaco, al suo fegato, alle sue febbri intermittenti, si dice condotto nel regno della vanità, non nella severa valle d'Igea. Buona notte all'amico. Siccome è un figliuolo tanto giudizioso, ed ha la guida alle acque di Recoaro, prima di soffiar sul lume, legga quanti malanni affliggono l'umanità fisicamente e ricordi quanti altri la percotano moralmente, e poi si rassegni a pigliare il mondo com'è. Sognando qualche bionda testina di veneziana, con un garofano di Vicenza alle treccie, una collana di perle al collo, pensi a sant'Antonio, che solo, nel deserto, meditabondo ed arcigno, doveva sbadigliare fino a sgangherarsi le mascelle. E ciò è poca lode di messer Domeneddio, che, creando Recoaro, lo volle proprio sacro ad Imene ed alla Salute; ei volle che la vita qui fosse animatissima, come una perpetua sagra, senza santi di calendario: il giorno rallegrato dalla festa del sole, dalla vista dei monti, dallo scroscio dei torrenti; il crepuscolo vespertino poetizzato dalle gite sui somarelli pei viottoli deserti, e la notte dedicata alla musica, alla tombola, alla danza. * * * E si fa sera—la sera solenne dei monti. Le cime aduste e stagliate mano mano prendono le tinte violastre che fondono in un velo solo le frane, i torrenti, le insenature, le gobbe, gli ruffii selvatici, gli scaglioni, i torracchiotti: giù per i pendii vestiti di boscaglie, una fredda oscurità cancella i contorni dei faggi, dei castagni, dei pioppi, e versa il solo verde cupo della solitudine; i pratelli erbosi sembrano aggelati da cento rivoletti che, gorgogliando dalle chiuse e perdendo il luccicore, per tane e bugigattoli si smarriscono giù in fili bisbiglianti; i falciatori tornano soli e senza canzoni su pei viottoli di sassi ammontati e sui sentieruzzi guazzosi, sciacquano i falcioni alle cascatelle, e si dilungano tra i macchioni dei castagni, dove s'alza un filo di fumo color cobalto da un tettuccio di tegole muscose. Il cielo è del più intenso azzurro, profondo senza un fiocco di nube; e la prima stella sembra aprire e chiudere, ammiccando, la sua pupilla di luce, quasi mesta fra tanta pace, fra tanto silenzio, fra tanta solennità di morte. L'uggioso guaiolare di qualche cane, qualche lontanissimo muggito, il fragore basso dell'Agno: ecco i saluti di questo deserto che si addorme, che si sprofonda nell'oscurità, che ha i fremiti degli abissi e i sussulti del vento. * * * E si fa notte—la notte lieta dello stabilimento Giorgetti. Il mercante turco attraversa il piazzale con un paggio non maomettano che gli regge religiosamente il narguilè e s'abbatte coll'ambasciatore russo: una signorina francese che fuma la sigaretta getta uno sbuffo che va a sfioccarsi fra le tese di un tricorno da piovano bergamasco: un professore col cappello a tuba cede la destra ad un musseto che trotta colla sua greppia: due dame che combatterono per la toletta, si passano vicino e la gonna della trionfatrice fruscia ironicamente sulla coda della vinta: un giovanotto incendiato ed ardentissimo s'incontra col Pompiere del Fanfulla e, guardate combinazione! una signorina accetta il braccio e il bisbiglio di un signorino. Ma chi ve la dipinge tutta questa folla! Sul piazzale si addoppia la vita alle prime battute di una quadriglia. Il prezioso filo d'acqua del conte Lelio Piovene, là sotto un portico del settecento, nella nicchia umida, ferrugginosa, magnesiaca, con un lumino scoppiettante a lato, sembra piangere di dover colare giù nelle bottigliette che si spediscono a Milano, a Venezia, a Verona, lui che la salute la vorrebbe regalare in luogo, accompagnato dall'allegria e dal corteo degli asinelli. Il ringhioso leone repubblicano, dagli archi bugnati, guarda giù, come un protettore, e se a vece del messale di San Marco, stringesse l'altro storico di Recoaro lo dovrebbe aunghiare un po' meno crudelmente, perchè ci sono pagine di color roseo e celeste. La folla si versa nel salone del Vicentino; là la tombola, i lancieri e le ciarle. E l'amico milanese, che non ha osato guardare le teste femminili, là le vedrebbe innondate di luci e di sorrisi, contornate da capelli biondi, neri e castagni, tante volte adorne nobilmente di mazzolini di edelweiss, di ciclami, di margherite, di grappolini di sorbo! E la cura? la cura felice, per cui s'è mosso l'amico, affrontando sette ore di ferrovia, i pericoli di un tramway snodato come una biscia, le scosse di una vettura a capponaia? La cura non ha orario e non ha metodo e non ha noia. Bevete e bevete. * * * Uno sguardo all'elenco dei forastieri ed ho quasi finito. Abbiamo avuto qui tanto corone da far invidia al fondatore dell'archivio araldico del Vallardi: i nuovi venuti da Milano sono il marchese C., i conti T., la nobile B.; da Torino, la contessa B. di G. e il commendatore V.; da Bologna, la contessa A. Volete anche della politica alle acque? È arrivato quel nostro insigne concittadino, che è il senatore G., prefetto di Verona, l'onorevole O., l'onorevole R., e il nostro marchese V., se pure egli non desidera d'essere posto fra i filarmonici. * * * Proprio l'ultime righe e ho finito. A Vicenza ebbi il piacere di conoscere quel cesellatore famoso, queir ageminatore, quello sbalzatore, quell'incisore che è il Coltellazzo. Come a lui, così a voi non nascondo un mio schietto convincimento: il nostro Gaggino a Milano è più amoroso dell'antico, è più ingenuo, è più fino; ed oltre all'arte del fare, conosce gli accorgimenti sagacissimi dell'irrugginire e dello sdrucire. Il Coltellazzo è creatore e libero: il Gaggino è archeofilo. Concludo dicendo che tra questi monti, a Valdagno, ho conosciuto un dotto istoriografo della vallata, il signor Giovanni Soster, il quale raccoglie documenti, pubblica monografie, incetta cose antiche, sì che la sua casa può dirsi un piccolo museo di memorie locali. DA SCHIO (NOTE COL LAPIS.) 20 agosto 1880. Da Recoaro, per Rovegliana e i sentieruzzi montani, l'arrivare a Schio sul dorso di una somarella orecchiuta, coll'armoniosa compagnia di un mussaro, che, menando botte da

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Argomenti: sette ore,    suono maestoso,    crepuscolo vespertino,    sera solenne,    fragore basso

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