Storia di un'anima di Ambrogio Bazzero pagina 51

Testo di pubblico dominio

danno stringicore i fiori che dondolano all'ondina piangente, ci fanno abbrividire i pratelli irrugiadati. Il cielo s'è schiarito ancor più: come? quando? Su un estremo picco la luce del sole ha dipinto una pezza di rosso-carminio. È il mattino: con questa parola si dice tutto! Già canta un fringuello. Camminiamo, su, su! Sotto ai faggi dalle cortecce lucenti e dalle foglie ovate, sugli scheggioni, di qua, di là, per le breccie dei macigni e sulle schiene, poi sui pendii sparsi di massi rotolati e d'altri conficcati, poi sui sentieruzzi teneri, spolverizzati di squamucce d'argento, tra le selvette fresche di felci, si cammina e si cammina…. Il sole scappa giù ampio e gaio: fra poco ci coloriremo a' suoi raggi…. Siamo all'alp. È una cascina di pietre ammucchiate, col tetto di lastre micacee, col fienile, la stalla, la fontana che trabocca dal tubo di legno: il sentiero fangoso, puzzolente, trito da cento unghie, accompagna ai pascoli, alle grotte sotto cui hanno dormito le capre, fra gli enormi massi vellutati d'efflorescenze verdicce. All'alp si beve il latte nella biella, nella cucina affumicata, sui trespoli, tra le fascine, i secchi gialli e le macchiette dei vecchi pastori in calze groppose, e quelle dei bimbi seminudi: le ragazze corrono alla fontana. Una sola finestra scaccia il fumo e fa entrare la luce: chi non vede un pezzo di montagna festante al sole, da quella balestriera livida, angolosa, abbruciata e slavata! Chi non sente sotto, dalle fessure del pavimento di legno, le vacche agitare i collaracci e magari il latte schizzare con suono acuto nel vaso di rame della massaia! Chi non ha comperato un cucchiaio di legno!… Quando ci siamo nuovamente incamminati, la guida ci si fa un po' più vicina, non ci precede più di venti passi, ma solo di cinque (la colazione ha messo tra noi un po' di confidenza), e non risponde più quell'asciutto—Sissgnor—ma, cogli occhi bassi, muove la manina ad accennare qualche fiore, qualche erba: ecco la genziana aromatica e la mattutina profumata (sassifraga) e i garofanetti coi petali a ritagli minutissimi. La guida è una bella ragazza, dritta come un bersagliere, tondina, piccola, bionda: ha dato i fastidi a rangé, canterella sottovoce, e si arrischia anche a risponderci che si chiama Main…. Sul monte non crescono più arbusti di carpini, nè frassini, nè faggi: solo scheggioni fessi e macigni e zolle inaridite. Sui pendii s'affollano le felci: qua calpestate pesantemente da poco mostrano come un sentiero nuovo, svelando tra il verde gaio dell'insieme il verde freddo delle loro pagine inferiori: altrove schiantate da un pezzo e disseccate appaiono come cuprei ricami: su su digradano ondulando. Incomincia una frana sconvolta, un torrente secco: i cespi del rododendron ferrugineum sbucano da ogni crepaccio ove ci sia una manciata di terra, ricchissimamente adorni di fiori vermigli: alcuni corimbi staccano sulle tinte cineree-lucenti delle pietre, altri sul cielo azzurro di sette azzurri, altri sui guancialetti dell'erica che odora di miele…. Oh meraviglia! suona un campanaccio grave: dòn dòn, dodòn, dodòn: una vacca appare, col muso gemmato d'acqua, le corna sporche di terra, con una bava che fila giù dalle mascelle spostate dal ruminare: sbarra gli occhioni, colla coda sferza una mosca, poi sprofonda la gamba nana nei cespi di rododendron, sviluppando l'adipe del tardo corpaccio, strascinando le densissime mammelle sui fiori gentili. Suona un altro campanaccio, e un altro, e un altro: è un concerto da festa. Vediamo l'intera mandra: il pastore su un'eminenza s'appoggia al bastone, come un cavaliere al lanciotto: le caprette colle gambe lanose e divaricate, sporgendo il collo, s'arrampicano sui tetti delle stalle o sui grandi basamenti dei macigni…. E canta il pastore:—L'America l'è granda—: muggono le vacche: e le caprette col tremulo belato fingono le cornamuse nasali… È mezzogiorno. Dal colle si domina il portentoso anfiteatro dei monti: monti rocciosi a destra, a sinistra, giù la comba aperta che dà origine a una voragine profondissima, il principio di un'altra valle laterale che si perde Dio sa dove: in fondo, alta, vi è una cima dentata, dalle abbaglianti pezze di serico bianco che si spiegano e si stratagliano sui ghiacciai. È impossibile dire le tinte violastre dell'ombre lontane trasparentissime, su cui si fondono i larici, e impiccioliscono, e fanno selve bluastre e s'inerpicano sulle torri di fantastiche ruine. Il sole è grande colorista. Eccoci ai larici dal fusto eretto, dai rami cadenti, dalle foglie lucide di mille ispidi aghetti e flessuose ad ogni vento: eccoci ai coni crocchianti, all'erbe dei camosci, ai radiconi che disegnano informi spine dorsali di mostri, alle scalee ammucchiate dai giganti, ai ginepri tenacissimi. Il sole scalda l'acro odore delle cortecce. Qua, da un'insenatura umida e lucida come acciaio, un torrente sembra con cento braccia cadere aggrappandosi di picco in picco: là invece tranquillo, spiegato, maestoso, si abbandona giù come un velo di limatura d'argento: il rombo è il misterioso crescendo degli abissi: ogni dove con prorotto singhiozzo nelle tane scavate gorgogliano acque sotterranee. Certe locuste, saltabeccando da stordite in ogni direzione, vibrano seccamente colle ali: dall'alto gridano le marmotte…. Dove siamo? A quale altezza? In una conca strozzata fra i macigni c'è una bella isoletta di neve. La neve? La neve ai tanti di agosto! Facciamo subito un punch frappé. La neve! Si tocca, si mangia, si vede scintillare, si getta nella gerla di Main… Il terreno è fracido: s'è fusa la neve il giorno prima, ed oggi è nato un fiorello azzurro melanconico: più su, come pennacchietti orientali, tremolano i fiocchi argentei del mignin, odora il gratissimo fiore della concordia, l'amaranto che dà il responso dalle radici a chi lo vuole interrogare. Più in su ancora all'alp di nitido larice, la fanciulla nitidissima, che veste di panno rosso, parla il tedesco dai denti stretti e legge il libricciuolo della messa stampato a Kemden e col legno imprime sul burro le cifre col rosone del babbo, nella coulisse piccina della sua finestrella specchiante, la fanciulla che sorride ha posto un mazzolino di viole del pensiero, esili, rigide di contorni, pallide, odorose, insieme alla cara vaniglia dell'Alpi. Più in su ancora si cammina sulla neve, il piede freddo, l'occhio infastidito dalla vasta bianchezza, la mano stretta al bastone, il collo saettato dal sole: e su e su: si sdrucciola e si ride. Ma che! in fondo c'è un precipizio: finisce o non finisce questo tappeto, che addoppia le tinte abbrustolate delle cime? Qui vicino ai massi sporgenti e neri il piede rompe una fragile crosta insudiciata: là la monotona eguaglianza è tolta da strisce che vi lasciarono le trosce d'acqua: là si avvalla ed è ondeggiata. La nostra ragazza procede dritta, senza fallare, equilibrata, colla gerla sulle spalle, e ride alla nostra domanda:—Finisce o non finisce?—Chi s'arresta, sdrucciola: chi s'imbizzisce, falla: chi sdrucciola e chi falla arrischia di rifare il cammino in meno di dieci minuti fino al fondo. E su e su, ci arrampichiamo poggiando i piedi nell'orme profonde lasciate dalla guida: crepita la neve e s'ode il nostro anelito frequente.—Ohe, che gioco lungo!—dico io, e mi sento floscio ed annoiato…. Oh santa fiaschetta del rhum, ti benedico, ti voglio, ti bacio! A te devo il passo sicuro, l'occhio indagatore, il petto ristorato: più la sorsata m'arde la gola, più mi pare di divenire un piccolo re della natura. Bevi, bevi anche tu, bionda fanciulla: alla cima urleremo a squarciagola il grido selvaggio dei pastori…. Chi ha detto ch'io sono stanco? Ch'io casco sulla neve?… Vedremo i laghetti freddi e le vacche immote sulle rive a specchiarsi e le pecore lanose sdraiate sui pendii e i corti vitelli dalle gambe lunghe, che labbreggiano cercando le mamme, e le mandriane brune che addormono in grembo la testa del

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Argomenti: cielo azzurro,    grido selvaggio,    suono acuto,    estremo picco,    tremulo belato

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