Marocco di Edmondo De Amicis pagina 73

Testo di pubblico dominio

ministro della guerra, che son cinque anni che è ministro e fa tutto quello che vuole, vada da lui a domandargli se so far la gelatina! Ma vada, mi dia questa soddisfazione, ci passi un momento quando saremo ritornati al paese!—E insistette tanto che per poter contemplare in pace l’Oceano, dovetti promettergli che ci sarei passato. Intanto raggiungevamo di cento in cento passi due o tre mule cariche, soldati a cavallo, servi a piedi; piccoli frammenti della carovana che si stendeva per più d’un ora di cammino. Fra i soldati ve n’erano alcuni di Laracce, stracciati, con un fazzoletto annodato intorno al capo e un fucile rugginoso fra le mani; e fra i servi, dei ragazzi di dodici o quindici anni, non mai visti prima d’allora, i quali erano scappati, mi fu detto, da Mechinez e da Karia-el-Abbassi, e s’erano aggregati alla carovana, senz’altro addosso che una camicia, per andare a Tangeri, la città civile, a cercar fortuna, campando intanto delle limosine dei soldati. In alcuni di questi gruppi c’era uno che raccontava una storia; altri cantavano; tutti parevano allegri. A metà strada ci fermammo all’ombra d’uno scoglio per far colezione. Qui vidi una scena che mi rivelò l’indole di quella gente meglio d’un volume di considerazioni psicologiche. Vicino a noi c’era un soldato seduto sulla sabbia, più in là un altro, più lontano un servo, e a una cinquantina di passi da questo, sulla china d’un piccolo colle, un altro servo, seduto vicino a una sorgente, con una brocca fra le ginocchia. Desiderando di bere, gridai al primo soldato:—Elma! (acqua)—e gli accennai la sorgente. Il soldato rispose di sì con un gesto cortese e ordinò imperiosamente all’altro soldato d’andare a prendere dell’acqua. Costui accennò che avrebbe obbedito subito, e con un accento minaccioso rimproverò il servo che era là presso, di non essere ancora corso a fare il suo dovere. Il servo rimproverato balzò in piedi e facendo due o tre passi impetuosi verso l’altro servo seduto accanto alla sorgente, gli gridò che facesse presto. Costui, vedendo che io non gli badavo, non si mosse. Passarono cinque minuti, l’acqua non venne. Mi rivolsi daccapo al primo soldato e seguì la stessa scena di prima. Infine, se volli aver l’acqua, dovetti, spolmonandomi, dar l’ordine direttamente al servo della brocca il quale, dopo qualche momento di riflessione, si decise ad attingerla e me la portò a passo di tartaruga. Ci rimettemmo in cammino. Tirava un ventolino fresco e una nuvola nascondeva il sole, era una passeggiata deliziosa; ma continuando a crescere la marea, e restringendosi man mano quel po’ di strada sabbiosa su cui camminavamo ad uno ad uno, ci trovammo ben presto imprigionati fra il mare e le colline rocciose che pendevano quasi a picco sul nostro capo, e costretti a camminare fra gli scogli, contro cui si venivano a frangere le onde. Parecchie volte, la mula arrestandosi spaventata, mi trovai circondato dall’acqua, ravvolto in un nuvolo di spruzzi, assordato, acciecato, e mi girò il capo, e intravvidi l’intestazione degli articoletti necrologici che avrebbero scritto i miei amici. Ma la nostra ora, come diceva il cuoco, non era ancora sonata; e dopo un miglio di cammino, arrivammo a una collina accessibile, sulla quale ci arrampicammo in fretta e in furia, volgendoci indietro a rimirar lo passo. Veniva con noi, a cavallo, un vecchio soldato di Laracce, un po’ tocco nel cervello, che rideva continuamente; ma che, grazie al cielo, conosceva la strada. Costui ci fece girare intorno alla collina e ci menò a traverso una macchia fittissima di quercie nane, di cisti, di betulle, di sugheri, di ginestri, d’arbusti d’ogni sorta, per mille avvolgimenti di sentieri scoscesi, fra i macigni, fra le spine, nel fango, nell’acqua, al buio, in recessi dove pareva che non fosse mai penetrata una creatura umana, e sempre ridendo, ci ricondusse, dopo un lungo e lentissimo giro, scorticati e stracciati, sulla riva del mare, dove rimaneva ancora un po’ di spazio libero dalle acque. Qui la carovana non essendo ancora arrivata, la spiaggia era deserta, e camminammo per un pezzo non vedendo altro che cielo e mare, e il piede delle colline ripidissime che, formando tanti piccoli seni successivi, ci nascondevano l’orizzonte dinanzi e alle spalle. Camminavamo in silenzio, l’un dietro l’altro, sopra la sabbia intatta e morbida come un tappeto, tutti colla testa, io credo, mille miglia lontana dal Marocco, quando improvvisamente saltò fuori di dietro a uno scoglio uno spettro, un vecchio orribile, mezzo nudo, con una gran corona di fiori gialli intorno alla fronte,—un Santo—; il quale prese a inveire contro di noi urlando come un pazzo furioso e facendo con tutt’e due le mani l’atto di graffiarci il viso e di strapparci la barba. Ci fermammo a contemplarlo. Diventò più feroce. Il Ranni, senza tanti complimenti, s’avanzò per applicargli una bastonata. Io lo trattenni e gettai al santo una moneta. Questo briccone tacque immediatamente, raccolse la moneta, la guardò di sopra e di sotto, se la mise in seno, e poi ricominciò ad urlare peggio di prima.—Ah! questa volta,—disse il Ranni;—una legnata ci sta!—E alzò il bastone. Ma il soldato, fattosi serio ad un tratto, lo trattenne e dicendo al Santo qualche parola a bassa voce con un accento di profondo rispetto, lo indusse a tacere. L’orribile vecchio ci slanciò un’ultima occhiata fulminea e si rinascose in mezzo agli scogli, dove ci fu detto che vive, nutrendosi d’erbe, da più di due anni, coll’unico scopo di maledire i bastimenti dei Nazareni che passano all’orizzonte. Di là risalimmo sui monti e camminammo lungo tempo per sentieri serpeggianti fra i lentischi, le ginestre e le roccie. In alcuni punti il sentiero correndo sull’orlo del monte tagliato a picco, vedevamo sotto, a una grande profondità, il mare che flagellava gli scogli, e un lunghissimo tratto di spiaggia, in cui si stendeva a perdita d’occhi la carovana, e l’immenso orizzonte dell’Oceano azzurro picchiettato di macchiettine bianche da qualche lontano bastimento a vela. I monti per cui ci avanzavamo formavano colle loro cime schiacciate un vasto piano ondulato, tutto coperto d’alti arbusti, dove non si vedeva alcuna traccia di coltivazione, nè una cuba, nè una capanna, nè una creatura umana, e non si sentiva altro rumore che il mormorio fioco del mare.—Che paese!—esclamava il cuoco girando lo sguardo inquieto su quella solitudine;—purchè non si faccia qualche cattivo incontro.—E mi domandò più volte se non c’era pericolo d’incontrare dei leoni. Salendo e scendendo, perdendoci di vista e ritrovandoci più volte in mezzo agli arbusti, camminavamo da quasi due ore per quei monti deserti, e cominciavamo a temere d’aver sbagliata la strada, quando dalla sommità d’un’altura vedemmo a un tratto le torri d’Arzilla e tutta la costa fino alla montagna del capo Spartel, che disegnava nettamente il suo contorno azzurro nella chiarezza limpidissima del cielo. Fu un vivo piacere per tutta la mia piccola carovana; ma di breve durata. Scendendo verso il mare scoprimmo lontano fra gli alberi un gruppo di cavalli e d’uomini accovacciati, i quali, appena ci videro, si rizzarono in piedi, saltarono in sella e si diressero verso di noi, distendendosi sopra una sola linea in forma di mezzaluna, come se volessero impedirci di fuggire per una scorciatoia verso la città. —Ci siamo,—pensai;—questa volta non c’è scampo; è una banda. E feci cenno agli altri di fermarsi. —Ca manda avanti ’l moro! gridò il cuoco. Il soldato moro accorse. —Giù una trombonata!—gli gridò il cuoco fremente. —Un momento;—io dissi;—prima d’ammazzar loro, vediamo se vogliono veramente ammazzar noi. Li guardai attentamente; s’avanzavano di trotto; eran dieci, parte vestiti di color oscuro, parte di bianco; mi parve che nessuno avesse il fucile; il capo era un vecchio

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Argomenti: lungo tempo,    due ore,    tre passi,    cento passi,    vecchio soldato

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