Marocco di Edmondo De Amicis pagina 14

Testo di pubblico dominio

e dei mulatti, tutti ravvolti nella cappa bianca, uomini alti ed ossuti, faccie ardite, denti ferini, occhiacci che facevano quasi pensare che non sarebbe stata superflua una seconda scorta, schierata fra noi e loro, per tutti i casi possibili. Mentre i miei compagni gesticolavano, io cercai fra le mule quella che aveva negli occhi una più dolce espressione di generosità e di mansuetudine; era una mula bianca colla groppa rabescata; decisi di affidare ad essa la mia vita, e d’allora fino al ritorno, rimasero legate a quella sella tutte le speranze della letteratura italiana nel Marocco. Di là andammo al Soc di barra, dov’erano state piantate le tende principali. Fu un gran piacere per noi il vedere quelle casette di tela dove dovevamo dormire trenta notti in mezzo a solitudini sconosciute, e vedere e sentire tante cose mirabili, e preparare chi una carta geografica, chi una relazione ufficiale, chi un quadro, chi un libro, formando tutti insieme una piccola Italia pellegrinante a traverso l’Impero dei Sceriffi! Erano tende di forma cilindro-conica, alcune grandi tanto da contenere più di venti persone, tutte altissime, di tela doppia, listate di guernizioni turchine e ornate sulla cima di grosse palle metalliche. La maggior parte appartenevano al Sultano, e chi sa quante belle del suo serraglio ci avevan dormito sotto nei viaggi da Fez a Mechinez e da Mechinez a Marocco! In un angolo dell’accampamento, v’era un gruppo di soldati della scorta, a piedi, e dinanzi a loro un personaggio sconosciuto che aspettava il ministro. Era un omo sui trentacinque anni, di aspetto maestoso, mulatto, corpulento, con un gran turbante bianco, la cappa turchina, i calzoncini rossi, e una sciabola col fodero di cuoio e il manico di corno di rinoceronte. Il ministro, arrivato pochi momenti dopo, ce lo presentò. Era il comandante della scorta; un generale dell’esercito imperiale, di nome Hamed Ben Kasen Buhamei, il quale doveva accompagnarci a Fez e riaccompagnarci a Tangeri, e colla sua testa rispondere al Sultano della sicurezza delle nostre. Ci strinse la mano con molta grazia e ci fece dire dall’interprete che sperava si sarebbe fatto un buon viaggio. Il suo viso e le sue maniere mi rassicurarono completamente riguardo ai denti e agli occhi dei soldati che avevo visti alla Casba. Non era bello; ma il suo volto esprimeva un’indole mite e un’intelligenza sveglia. Doveva saper leggere, scrivere e far di conto, essere insomma uno dei più colti generali dell’esercito, se il ministero della guerra gli aveva affidata quella delicata missione. In sua presenza si fece la distribuzione delle tende. Una fu assegnata alla pittura; della più grande, dopo quella dell’ambasciatore, pigliammo possesso il comandante di fregata, il capitano di stato maggiore, il viceconsole ed io, e fin d’allora si previde che sarebbe stata la tenda più chiassosa del campo. Un’altra, grandissima, fu scelta per sala da pranzo. Poi si fissarono quelle del medico, degli interpreti, dei cuochi, dei servi, dei soldati della Legazione. Il Comandante della scorta e i suoi soldati avevano le loro tende a parte. Altre tende si sarebbero aggiunte il giorno della partenza. In somma, c’era da prevedere che sarebbe riuscito un accampamento bellissimo, e io mi sentivo dentro degli accessi precoci di furore descrittivo. Il giorno dopo l’Incaricato d’affari andò col comandante di fregata e col capitano a far visita al Rappresentante del governo imperiale, Sidi-Bargas, che esercita in un certo senso l’ufficio di ministro degli affari esteri a Tangeri. Io m’aggregai a loro. Ero curioso di veder da vicino un ministro degli affari esteri, il quale, se gli stipendi non sono stati accresciuti da vent’anni in qua (cosa poco probabile), riceve dal governo settantacinque lire al mese, compreso il fondo per le spese di rappresentanza; lauto stipendio, nondimeno, appetto a quello dei Governatori, che è solamente di cinquanta. E non è a dire che questa carica sia una sine cura e vi si possa sobbarcare il primo venuto. Il famoso sultano Abd-Er-Rahman, per esempio, che regnò dal 1822 al 1859, non vi seppe trovare altr’uomo adatto che un Sidi-Mohammed-el-Khatib, negoziante di zucchero e di caffè, che pure facendo il ministro continuava a trafficare regolarmente a Tangeri e a Gibilterra. Le istruzioni, infatti, che questo ministro riceve dal suo governo, benchè sieno molto semplici, sono tali da mettere nell’imbarazzo anche il più sottile diplomatico europeo. Un console francese le ha formulate con molta precisione:—a tutte le domande dei consoli, rispondere con promesse;—di queste promesse differire fino al più tardi possibile l’adempimento;—guadagnar tempo;—suscitare difficoltà d’ogni natura ai reclamanti,—fare in modo che, stanchi di reclamare, desistano;—cedere, se minacciano, il meno che si può;—se poi il cannone se ne immischia, cedere, ma non prima del momento supremo. Ma convien dire che dopo la guerra di Spagna, e particolarmente sotto il regno di Mulei-el-Hassen, le cose son molto cangiate. Salimmo alla Casba, dov’è la casa del ministro. Una schiera di soldati faceva ala davanti alla porta. Si attraversò un giardino, e s’entrò in una sala spaziosa, dove vennero incontro all’Incaricato d’affari il ministro degli esteri e il governatore di Tangeri. In fondo alla sala v’era un alcova con un sofà e alcune seggiole; in un angolo un letto modestissimo; sotto il letto, un servizio da caffè; le pareti bianche e nude; il pavimento coperto di stuoie. Sedemmo nell’alcova. I due personaggi che ci stavano davanti formavano tra loro un contrasto ammirabile. L’uno, Sidi-Bargas, il ministro, era un bel vecchio, colla barba bianca, la carnagione chiara, due occhi d’una vivacità indescrivibile e una gran bocca, sempre sorridente, che lasciava vedere due file di grossi denti bianchi come l’avorio; un viso che rivelava a primo aspetto l’astuzia finissima e l’indole meravigliosamente pieghevole richiesta dalla natura del suo ministero. Gli occhiali, la tabacchiera, certi movimenti cerimoniosi del capo e della mano, gli davan quasi l’aria d’un diplomatico europeo. Si vedeva l’uomo avvezzo a trattare con cristiani, superiore, forse, a molte superstizioni e a molti pregiudizii del suo popolo, un mussulmano di manica larga, un moro inverniciato di civiltà. L’altro, il Caid Misfiui, pareva l’incarnazione del Marocco. Era un omo d’una cinquantina d’anni, di color bronzino, di barba nera, membruto, cupo, taciturno; una faccia che pareva non avesse mai sorriso. Teneva il capo basso, gli occhi a terra, le sopracciglia corrugate; si sarebbe detto che gl’ispiravamo un profondo senso di ripugnanza. Io lo guardavo di sott’occhio, con diffidenza. Mi pareva che quell’uomo non dovesse mai aprir bocca altro che per far rotolare una testa ai suoi piedi. Tutti e due avevano in capo un gran turbante di mussolina ed erano ravvolti dalla testa ai piedi in un caïc trasparente. L’incaricato d’affari presentò a questi due personaggi, per mezzo dell’interprete, il Comandante di fregata e il capitano. Eran due ufficiali: la presentazione non richiedeva commenti. Presentando me, invece, bisognava spiegare presso a poco che specie di mestiere facessi. L’Incaricato d’affari lo spiegò in termini iperbolici. Sidi-Bargas stette un po’ pensando e poi disse alcune parole all’interprete il quale tradusse: —Sua Eccellenza domanda perchè avendo codesta abilità nella mano, Vostra Signoria la porta coperta. Vostra Signoria dovrebbe levarsi il guanto perchè si potesse vedere la mano. Il complimento era così nuovo per me che non trovai subito una risposta. —Non è necessario,—osservò l’Incaricato d’affari,—perchè la facoltà risiede nella mente e non nella mano. Pareva che fosse tutto detto. Ma quando un moro s’attacca a una metafora, non la lascia così facilmente. —È vero, fece rispondere sua Eccellenza,—ma la mano

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Argomenti: due file,    certo senso,    personaggio sconosciuto,    profondo senso,    dolce espressione

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