Marocco di Edmondo De Amicis pagina 30

Testo di pubblico dominio

bel garbo e disparve per la porticina.—Va a portar notizie alla sua favorita—disse uno. Se potessi sentire quello che gli domanda!—pensai—Come sono? Cosa sono? Come parlano? Che vestiti hanno? Oh lasciameli vedere, amor mio, un momento solo, a traverso le fessure della porta ed io ti colmerò di carezze!—E probabilmente l’amante cortese cedette, e la bella misteriosa, spiandoci all’uscita, esclamò:—Allà mi protegga! Che spaventose figure! Andando all’accampamento, ch’era a un mezzo miglio dalla casa del Governatore, sopra un altopiano coperto d’erba secca, ci sentimmo per la prima volta scottar dal sole in maniera che ognuno di noi cominciò, come dice della plebe milanese, ai tempi della peste, il Tadino, «a chiudere li denti et inarcare le ciglia.» E non erano che gli otto di maggio! E non eravamo ancora a cento miglia dalla costa del Mediterraneo! E ci rimaneva da attraversare la grande pianura del Sebù! Nonostante il caldo, l’accampamento di Karia-el-Abbassi fu rallegrato, verso sera, da un insolito concorso di gente. Da una parte una lunga fila d’arabi, seduti in terra, assistevano alle cariche dei cavalieri della scorta; dalla parte opposta altri arabi giuocavano alla palla; un po’ più lontano, un gruppo di donne imbacuccate nel loro rozzo caic ci osservavano con stupore gesticolando fra loro; e frotte di bambini scorazzavano tutt’intorno. Il popolo di Ben-el-Abbassi pareva veramente meno selvaggio dei suoi vicini del Garb. Il Biseo ed io ci avvicinammo ai giuocatori. Appena ci videro, smisero di giuocare, si consultarono gli uni cogli altri e poi ricominciarono. Erano quindici o venti, la maggior parte pezzi di giovani larghi, lunghi e nerboruti, che non avevano altro addosso che una camicia stretta intorno alla vita, e una specie di mantello di tela grossolana e sudicia, rigirato intorno al corpo come un caic. Giocavano diversamente da quelli che avevo visti a Tangeri. Uno con un colpo del piede buttava la palla a una grande altezza; tutti gli altri facevano ad afferrarla in aria quanto più in su fosse possibile, spiccando in direzione verticale dei salti altissimi, come se si levassero a volo; e chi riusciva ad afferrarla, la buttava in aria alla sua volta. Spesso, in quel serra serra, uno dei più robusti, cadendo, travolgeva nella caduta alcuni altri, i quali si trascinavan dietro i rimanenti, e allora rotolavano per un lungo tratto tutti insieme intrecciati e confusi sgambettando e ridendo, senza darsi pensiero al mondo di ciò che esponevano al sole. Più d’uno, in quel rotolamento, lasciò intravvedere un pugnale ricurvo legato alla cintura; altri una borsicina appesa al collo, che conteneva probabilmente qualche versetto del Corano preservatore dalla tigna. Una volta la palla cadde ai miei piedi. Mi venne un’idea. La raccolsi, la misi sopra una palma aperta, vi feci su coll’altra mano due o tre gesti di negromante e la ributtai. Per qualche momento nessuno dei giuocatori osò riprenderla. Vi si avvicinarono, la guardarono, la toccarono col piede in atto di diffidenza; e solo dopo avermi visto ridere e accennare che era stato uno scherzo, il più ardito la raccolse e la rilanciò ridendo ai suoi compagni. Intanto quasi tutti i ragazzi che scorazzavano qua e là ci s’erano affollati intorno. Saranno stati una cinquantina, e di tutta la roba che avevano addosso fra tutti non si sarebbe trovato un rigattiere che offrisse cinquanta centesimi. Alcuni erano bellissimi, molti tignosi, la maggior parte color caffè, alcuni così tra il verdastro e il giallognolo, che parevano impastati di sostanze vegetali. Parecchi avevano il codino alla chinese. Da principio ci stavano discosti una decina di passi, guardandoci con sospetto, e scambiandosi, a bassa voce, le proprie osservazioni. Poi, vedendo che non facevamo nessun atto ostile, ci si avvicinarono a poco a poco fin quasi a toccarci e cominciarono ad alzarsi in punta dei piedi, a chinarsi, a piegarsi di qua e di là, per vederci bene da tutte le parti, come avrebbero fatto intorno a due statue. E noi due immobili. Uno ci toccò una scarpa colla punta del dito e ritirò subito la mano come se si fosse scottato; un altro mi fiutò la manica. Eravamo circondati, sentivamo ogni sorta d’odori esotici, ci pareva già che ci brulicasse addosso qualchecosa.—Andiamo,—dissi al Biseo,—è tempo di liberarsi—Io ho un mezzo infallibile,—rispose. Così dicendo tirò fuori bruscamente l’album e la matita e fece l’atto di mettersi a copiare una di quelle faccie. In un batter d’occhio si dispersero tutti come uno sciame d’uccelli. Poco dopo ci si avvicinarono alcune donne.—Oh miracolo!—si disse noi altri.—Purchè non vengano a darci una pugnalata in nome di Maometto!—E ci tenemmo sull’avviso. Erano invece povere malate, smunte, che avevano appena la forza di reggersi in piedi e di tener su il braccio per coprirsi il viso col caic; fra le quali una giovane, che gemeva da metter compassione, non lasciando vedere che un occhio azzurro velato dalle lagrime. Capii che cercavano il medico e accennai dove dovevano andare. Una di esse, spiegando la parola col gesto, mi domandò se si pagava. Risposi di no. Allora s’avviarono vacillando verso la tenda del medico. Volli assistere al consulto.—Che cosa vi sentite?—domandò il signor Miguerez, in arabo, alla prima che si presentò.—Un gran dolore qui,—rispose, indicando una spalla.—Che cosa ci avete?—(Non ricordo che cosa abbia risposto).—Bisogna ch’io ci veda,—disse il medico; scopritevi un momento.—La donna non si mosse. Ecco il gran punto! Ho una cosa qui, più sotto, più sopra, di qua, di là; ma nessuna, nemmeno una vecchia nonagenaria, vuol lasciarsi vedere, e tutte pretendono che il medico indovini.—Insomma, volete o non volete scoprirvi? ridomandò il Miguerez.—La donna non si mosse.—Quand’è così, vediamo le altre.—E interrogò le altre, mentre quella si allontanava tutta malinconica. Le altre non avevano bisogno di scoprirsi; il medico distribuì loro delle pillole e delle polveri, e le mandò con Dio. Povere creature! Nessuna di loro toccava forse ancora i trent’anni, e la gioventù era già passata per tutte, e col passare della gioventù, eran cominciate le fatiche smodate, i trattamenti brutali e il disprezzo che rendono orribile la vecchiaia della donna araba: strumento di piacere fino a vent’anni, bestia da soma fino alla morte. Il pranzo fu rallegrato da una visita di Ben-el-Abbassi, e la notte funestata da una spaventosa invasione d’insetti. Già nelle ore calde della giornata, avevo pronosticato male dal brulichìo straordinario che si vedeva fra l’erbe. Le formiche formavano delle lunghissime strisce nere, gli scarabei c’erano a mucchi, le cavallette fitte come le mosche; e con questi un gran numero d’altri insetti, non visti mai negli altri accampamenti, che m’ispiravano pochissima fiducia. Il capitano Di Boccard, intendente di Entomologia, me ne faceva la nomenclatura. C’era, tra gli altri, la cicindela campestris, trabocchetto vivente, che chiude colla grossa testa l’apertura della sua tana, e fa sprofondare, abbassandosi, gl’insetti incauti che vi passano sopra; il Pheropsophus africanus, che slancia dall’ano, contro il nemico che l’insegue, un buffo di vapori corrosivi; la Meloe majalis che strascina a stento, come un’idropica, l’enorme addome gonfio d’erba e d’ova; il Carabus rugosus, la Pimelia scabrosa, la Cetonia opaca, il Cossyphus Hoffmanseggi, foglia animata, di cui Vittor Hugo farebbe una descrizione fantastica da metter freddo nelle ossa. Più un gran numero di lucertoloni, di ragnacci, di centopiedi lunghi un palmo, di grilli cantaioli grossi come un pollice, di cimici verdi larghe come un soldo, che andavano e venivano come se s’apparecchiassero d’accordo comune a una qualche impresa guerresca. Come se questo non bastasse, appena seduto a tavola, nel punto che stendevo la mano per versarmi da

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Argomenti: mezzo miglio,    grande pianura,    pugnale ricurvo,    momento nessuno,    insolito concorso

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