Marocco di Edmondo De Amicis pagina 51

Testo di pubblico dominio

nostra incredulità;—vedono quest’altra qua?—E c’indicò una bambina più piccola.—Avrà dieci anni fra sei mesi ed è già maritata da più d’un anno. La bambina chinò la testa. Noi non credemmo. —Che cosa ho da dire?—continuò la madre;—se non vogliono credere alla mia parola, ci facciano l’onore di venire a casa nostra, di sabato, affinchè possiamo riceverli degnamente, e vedranno il marito e gli attestati del matrimonio. —E quanti anni ha il marito?—domandai. —Dieci compiuti, Signore. Vedendo che stentavamo a credere, ci accertarono la cosa tutte le altre donne, aggiungendo che sono rare le ragazze che si maritino dopo i dodici anni, che la maggior parte son già spose a dieci, e molte a otto, e non poche perfino a sette, con ragazzi press’a poco della stessa età; e che, naturalmente, fin che son così piccoli vivono coi parenti, i quali continuano a trattarli come bambini, li nutrono, li vestono, li sballottano, li sculacciano senza alcun riguardo alla loro dignità maritale; ma stanno sempre insieme e la moglie è sottomessa al marito. A noi pareva di sentir parlare d’un altro mondo, e stavamo a sentire colla bocca aperta, titubando fra la voglia di ridere, la compassione e lo sdegno. —Ma....—disse esitando l’Ambasciatore—stanno insieme anche.... dalla sera alla mattina? —Naturalmente—rispose la madre;—poichè sono marito e moglie! —Ma non capite,—disse l’Ambasciatore con un movimento di sdegno;—che questo è mal fatto? che è contro le leggi della natura? che è dannoso all’anima e al corpo? che in questo modo invece di educare moralmente e fisicamente l’infanzia, la profanate, l’avvelenate, la soffocate? —Che, che, signor Ambasciatore!—rispose la madre con la più amena disinvoltura;—non creda questo. Non segue nulla di tutto questo. Son bambini....—E qui s’avvicinò a noi e abbassò la voce.—Son bambini, non sanno nulla, non pensano a nulla, discorrono e ridono fra loro, e poi quando son stanchi, chinan la testa così e s’addormentano come angioletti. Nulla di male, signor Ambasciatore. L’Ambasciatore tentò ancora di persuaderla che del male ce n’era; ma la buona donna, continuando a ripetere:—nulla di male, nulla di male... a poco a poco, a poco a poco—rimase del proprio parere. In quel frattempo la sposina di nove anni mandava dei baci al cane da caccia del signor Paxcot, legato in un angolo del cortile. Povere creature! Fu una pietà il vederle, quando s’accomiatarono, rimettersi le babbuccie sotto il braccio e i braccialetti in seno, e così belle e vestite riccamente, avviarsi a piedi nudi per quelle strade sassose ed immonde, guardando intorno con un’espressione di umiltà supplichevole, come per scongiurare gl’insulti e le percosse dei passanti! * * * Una colezione in casa del ministro della guerra. Ci ricevette, appena entrati, in un cortile angusto, chiuso fra quattro muri altissimi e oscuro come un pozzo. Da un lato v’era una porticina alta poco più d’un metro, dall’altro una gran porta senza battenti e una stanza nuda, con una materassa distesa sul pavimento, e alcuni foglietti di carta infilati in uno spago appeso a una parete: la corrispondenza giornaliera, credo, di Sua Eccellenza. Si chiama Sid-Abd-Allà Ben Hamed, è fratello maggiore di Sid-Mussa, ha circa sessant’anni, è nero, piccolo, magro, malfermo sulle gambe, tremante, ridotto, come suol dirsi, sulle cigne; ma d’aspetto e di modi simpatici. Parla poco, chiude spesso gli occhi e sorride cortesemente abbassando la testa mezzo nascosta in un grosso turbante. Scambiate poche parole, fummo invitati a passare nella sala da pranzo. Primo l’Ambasciatore, e poi tutti gli altri, ad uno ad uno, piegandoci quasi ad angolo retto, infilammo la porticina, e riuscimmo in un altro cortile, spazioso, circondato d’archi eleganti, e coperto di musaici splendidi e svariatissimi. È un palazzo regalato a Sid-Abd-Allà dall’Imperatore. Egli medesimo ce lo disse, chinando la testa e chiudendo gli occhi in atto di religiosa venerazione. In un angolo del cortile v’era un gruppo d’ufficiali in turbante e cappa bianca; dalla parte opposta uno stuolo di servi, in mezzo ai quali giganteggiava un giovanotto di bellissimo aspetto, vestito tutto di turchino, alla zuava, con una lunga pistola alla cintura. A tutte le finestrine e porticine dei quattro muri, si vedevano apparire e sparire teste di donne e di ragazzine di ogni colore, e da ogni parte si sentivano vagiti di bimbi. Sedemmo intorno a una piccola tavola, in una piccolissima stanza, ingombrata in gran parte da due letti enormi. Il Ministro si pose vicino all’Ambasciatore, un po’ indietro, e stette là per tutto il tempo della colezione stropicciando vigorosamente il suo nero piede nudo piantato ritto sul ginocchio, in modo che le rispettabili dita ministeriali riuscivano per l’appunto sull’orlo della tavola, a mezzo palmo dal piatto del Comandante. I soldati della Legazione servivano. A un passo dalla tavola stava il gigante turchino, immobile come una statua, con una mano sul pistolone. Sid-Abd-Allà fu assai gentile coll’Ambasciatore. —Voi mi siete simpatico,—gli fece dire, senza preamboli, dal signor Morteo. L’Ambasciatore gli rispose che provava per lui un eguale sentimento. —Appena vi vidi,—continuò il Ministro,—il mio cuore fu vostro. L’Ambasciatore ricambiò il complimento. —Al cuore—concluse Sid Abd-Allà,—non si resiste; e quando egli ci comanda d’amare una persona, anche senza saperne la ragione, la si ama. L’Ambasciatore gli porse la mano ed egli se la strinse sul cuore. Ci furono portati diciotto piatti. Non ne parlo. Mi basta dire che son certo che me ne sarà tenuto conto il giorno in cui verrò giudicato. Per giunta l’acqua era muschiata, la tovaglia variopinta e le seggiole barcollanti. Ma queste piccole calamità, invece di metterci di malumore, ci accesero la vena degli scherzi per modo che poche volte fummo più allegramente bricconi di quella mattina. Se ci avesse sentiti Sid-Abd-Allà! Ma Sid-Abd-Allà era tutt’occhi e tutt’orecchi coll’Ambasciatore. Ci spaventò per un momento il signor Morteo, avvertendoci a bassa voce che il gigante turchino, essendo di Tunisi, poteva darsi che capisse qualche parola d’italiano. Ma guardandolo attentamente ad ogni scherzo, e vedendolo sempre impassibile come una statua, ci rassicurammo e tirammo innanzi senza badargli. Quante similitudini calzanti, inaspettate, e d’un effetto comico clamoroso, ma sventuratamente irripetibili, furono trovate a quegl’intingoli e a quelle salse! Finita la colezione, s’andò tutti nel cortile, dove il Ministro della guerra presentò all’Ambasciatore uno dei più alti ufficiali dell’esercito. Era il Comandante supremo dell’artiglieria: un piccolo vecchio, secco, inarcato come una C, con un enorme naso adunco e due occhiettini diabolici; una figura d’uccello di rapina; caricato, piuttosto che coperto, d’uno smisurato turbante giallo di forma quasi sferica, e vestito presso a poco alla zuava, tutto turchino, con un mantello bianco sulle spalle. Aveva una lunga sciabola al fianco e un pugnale inargentato alla cintura. L’Ambasciatore gli fece domandare a quale grado della gerarchia militare europea corrispondesse quello ch’egli aveva nell’esercito marocchino. Parve che quella domanda lo mettesse nell’imbarazzo. Pensò qualche momento e rispose balbettando:—Generale;—poi ripensò e soggiunse:—No, colonnello—e rimase un po’ confuso. Disse ch’era nativo d’Algeri. Mi balenò il sospetto che fosse un rinnegato. Chi sa per che strane vicende si trovava colonnello nel Marocco! Gli altri ufficiali, in quel frattempo, facevano colezione in una stanza a terreno aperta sul cortile, tutti seduti in cerchio sul pavimento, coi piatti nel mezzo. Capii benissimo, vedendoli mangiare, come i mori possano far di meno del coltello e della forchetta. Non si può dire il garbo, la

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Argomenti: fratello maggiore,    naso adunco,    mantello bianco,    testa mezzo,    nero piede

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