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Marocco di Edmondo De Amicis pagina 23cerchietto metallico e una catenella. Si dicono cose ammirabili del grande amore che nutre l’arabo per il cavallo, l’animale prediletto del profeta; si dice che lo considera come un essere sacro; che ogni mattina, al levar del sole, gli mette la mano destra sulla testa, mormorando: bismillah! (nel nome di Dio!) e si bacia poi la mano, che crede santificata da quel contatto; che gli prodiga ogni sorta di cure e di carezze. E saran cose vere. Ma questo suo grande amore, per quello ch’io vidi, non gl’impedisce di lacerargli i fianchi senza bisogno, di lasciarlo esposto al sole quando potrebbe ripararlo all’ombra, di condurlo a bere, a un’ora di cammino, colle zampe legate, di esporlo dieci volte al giorno, per puro spasso, a spezzarsi le gambe, e infine di trascurare la bardatura in maniera che il più diligente di loro, messo in un reggimento di cavalleria europea, passerebbe sei mesi dell’anno in prigione. Il caldo essendo forte, si stette parecchie ore all’ombra; ma a nessuno riuscì di dormire, per cagione degli insetti. Erano le prime avvisaglie d’una guerra tremenda che doveva durare, inferocendo di giorno in giorno, fino alla fine del viaggio. Appena sdraiati in terra, eravamo assaliti, punti, solleticati da cento parti, come se ci fossimo buttati sopra un letto di ortiche. Non erano che bruchi, ragni, formiconi, tafani, cavallette; ma grossi, petulanti e ostinati in una maniera inaudita. Il Comandante, che per rallegrare la brigata aveva preso il partito di esagerare favolosamente i pericoli, e lo faceva con un garbo ammirabile, ci assicurava che quelli erano animalini microscopici appetto agli insettacci che avremmo trovati avvicinandoci a Fez e innoltrandoci nell’estate; e che di noi non sarebbe tornato in Italia che qualche resto riconoscibile a stento dai parenti più stretti e dagli amici più intimi. Il cuoco udendo quelle parole, fece un sorriso forzato e diventò pensieroso. Vicino a noi c’era una tela di ragno smisurata, distesa sopra alcuni cespugli, come un lenzuolo messo ad asciugare. Mi pare ancor di sentire il comandante esclamare:—Ma in questo paese tutto è gigantesco, formidabile, miracoloso!—Ed osservava con ragione che il ragno che aveva fatto quella tela doveva essere almeno grosso quanto un cavallo. Ma non riuscimmo a scoprirlo. I soli che dormissero erano gli arabi, coricati la maggior parte al sole, con una processione di bestiaccie addosso. I due pittori disegnavano, tormentati da un nuvolo di mosche feroci, che strappavano all’Ussi, a due a tre per volta, tutta la ricchissima litania dei sacrati fiorentini Novi, arditi, da far testo di lingua. Scemato un po’ il caldo, la scorta di Had-el-Garbìa, il Console d’America e il Vicegovernatore di Tangeri, venuto là per dare l’ultima volta il buon viaggio all’Ambasciatore, si congedarono; e noi ci rimettemmo in cammino, seguiti dai trecento cavalieri della provincia di Laracce. Vaste pianure ondulate, coperte qui di grano, là d’orzo, più oltre di stoppia gialla, altrove d’erba e di fiori; qualche tenda nerastra e qualche tomba di santo; di tratto in tratto una palma; di miglio in miglio tre o quattro cavalieri che si riunivano alla scorta; una solitudine immensa, un sereno purissimo, un sole abbagliante: sono gli appunti che trovo nel mio quaderno intorno alla seconda marcia del cinque maggio. Dopo tre ore di cammino arrivammo a Tleta de Reissana dov’era l’accampamento. Le tende erano piantate, come al solito, in circolo, in una conca angusta e profonda, coperta d’erbe e di fiori altissimi che quasi c’impedivano il passo. Pareva di essere dentro a una grande aiuola di giardino. I letti e i bauli sotto le tende, erano quasi nascosti in mezzo alle margheritine, ai rosolacci, alle primavere, ai ranuncoli, a ombrellifere d’ogni grandezza e d’ogni colore. Accanto alla tenda dei pittori s’alzavano due aloé enormi con tutti i rami fioriti. Poco dopo il nostro arrivo, giunse da Laracce, per visitare l’Ambasciatore, l’agente consolare d’Italia, il signor Guagnino, vecchio negoziante genovese, che vive da quarant’anni sulla costa dell’Atlantico, conservando gelosamente puro l’accento della lingua di Balilla; e verso sera venne, non so di dove, un arabo della campagna per consultare il medico dell’ambasciata. Era un povero vecchio curvo e zoppicante; un soldato della Legazione lo condusse dinanzi alla tenda del signor Miguerez. Il signor Miguerez, che parla l’arabo, lo interrogò, e conosciuto il suo male, si mise a frugare nella farmacia portatile per cercare non so che medicinale. Non trovandolo, mandò a chiamare Mohamed Ducali, gli fece scrivere in arabo, sopra un foglietto di carta, una ricetta colla quale il malato avrebbe potuto, tornando in mezzo ai suoi, farsi fare quello che gli occorreva. Era un medicinale di cui gli arabi fanno grande uso. Mentre il Ducali scriveva, il vecchio mormorava una preghiera. Scritta che fu la ricetta, il medico la porse al malato. Questo, senza dargli tempo di dire una parola, afferrò il foglio e se lo ficcò in bocca con tutt’e due le mani. Il medico gridò:—No! no! Sputa! Sputa!—Fu inutile. Il povero vecchio masticò la carta coll’avidità d’un affamato, la mandò giù, ringraziò il dottore e si mosse per andarsene. Ci volle del buono e del bello a persuaderlo che la virtù della medicina non consisteva nella carta, e a fargli prendere un’altra ricetta. Questo fatto non può destare meraviglia in chi sappia che cos’è la medicina nel Marocco. La medicina v’è esercitata quasi unicamente dai ciarlatani, dai negromanti e dai santi. Qualche sugo d’erba, il salasso, la salsapariglia per il morbo celtico, la carne secca di serpente o di camaleonte per le febbri intermittenti, il ferro rovente per le ferite, certi versetti del Corano scritti in fondo ai recipienti dei medicinali o sopra un pezzetto di carta che il malato porta appeso al collo, sono i rimedi principali. Lo studio dell’anatomia essendo vietato dalla religione, è facile immaginare a che cosa si riduca la chirurgia. Basterà dire che i chirurghi strappano le tonsille colle dita e tentano l’estrazione della pietra con un rasoio o col primo gancio di ferro che si trovano ad aver fra le mani. L’amputazione è aborrita. I pochi arabi assistiti da medici europei muoiono fra atrocissimi spasimi piuttosto di subire il taglio che salverebbe loro la vita. Ne segue che sebbene siano frequentissimi i casi di perdita d’un membro, specialmente per lo scoppio dei fucili, non si vedono nel Marocco che pochissimi mutilati; e i più di quei pochissimi sono disgraziati ai quali il carnefice tagliò le mani con un coltellaccio, e il catrame bollente, in cui, secondo l’uso, tuffarono i moncherini, arrestò l’emorragia. I loro rimedi violenti, però, e specialmente il ferro rovente, ottengono qualche volta degli effetti ammirabili; e si applicano questi rimedi brutalmente, temerariamente, senz’aiuti. Ma o per poca sensibilità nervosa o per la vigoria dell’animo indurito dalla fede fatalista, resistono con una forza prodigiosa ai più tremendi dolori. Si metton le ventose con vasi di terra e tanto fuoco da arrostirsi la schiena; si piantano il pugnale negli apostemi, alla cieca, a rischio di rompersi le arterie; si fanno scorrere una brace accesa sopra un braccio piagato, con mano ferma, cacciando col soffio il fumo delle carni, senza lasciarsi sfuggire un lamento. Le malattie più frequenti son le febbri, le oftalmie, la tigna, l’elefantiasi, l’idropisia: ma la più comune è la sifilide, trasmessa di generazione in generazione, alterata, che si produce in forme strane ed orrende, di cui tribù intere sono infette e migliaia di sventurati muoiono; e ne morirebbero assai più se non fosse la sobrietà estrema di nutrimento a cui la maggior parte son costretti dalla miseria e dal clima. Medici europei non ce ne sono che nelle città della costa; nella stessa Fez non v’è altro che qualche Tag: vecchio due sole grande carta cammino mani noi essere Argomenti: tre ore, grande amore, ferro rovente, tanto fuoco, cerchietto metallico Altri libri consultabili online del sito affini al contenuto della pagina: Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis Corbaccio di Giovanni Boccaccio Fermo e Lucia di Alessandro Manzoni Fior di passione di Matilde Serao Il conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni Articoli del sito affini al contenuto della pagina: Offerta capodanno alle Hawaii Come gestire una serena convivenza Storia e curiosità sul canarino Come curare i tulipani al meglio Malta, il cuore del Mediterraneo
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