Marocco di Edmondo De Amicis pagina 16

Testo di pubblico dominio

sapere che aveva con sè un piccolo arsenale, tra armi da fuoco e armi da taglio; compreso un pugnalaccio moresco, di cui mi fece la descrizione, e che, non so perchè, mi pareva stato fabbricato apposta per farmi un buco nel cuore. Ma come fargli capire la cosa? E se non ne avesse avuto coscienza? Decisi di aspettare fino a notte, quando andassimo a letto, e per tutta la strada non mi potei più liberare da quel pensiero molesto. Camminavamo sopra un terreno ondulato a grandi curve, in una campagna verde e solitaria. La strada, se si può chiamar strada, era formata da un gran numero di sentieri paralleli, in alcuni punti incrociati, serpeggianti in mezzo a cespugli e pietroni, infossati come letti di rigagnoli. Qualche palma e qualche aloè disegnava le sue forme nere sull’orizzonte dorato. Il cielo cominciava a coprirsi di stelle. Non si vedeva nessuno nè vicino nè lontano. A un certo punto, sentimmo alcune fucilate. Era un gruppo d’arabi che dalla sommità d’una collina salutavano l’ambasciatore. Dopo tre ore di cammino, era notte fitta; cominciavamo a desiderare l’accampamento. La fame in qualcuno, in altri la stanchezza aveva troncate le conversazioni. Non si sentiva più che il passo dei cavalli e il respiro affannoso dei servi che ci seguivano correndo. A un tratto risuonò un grido del Caid. Ci voltammo e vedemmo un’altura, alla nostra destra, tutta scintillante di lumi. Era il nostro primo accampamento e lo salutammo con un grido. Non saprei esprimere il piacere che provai mettendo piede a terra in mezzo a quelle tende. Se non fosse stata la dignità, che dovevo serbare, di rappresentante della letteratura italiana, mi sarei messo a fare delle capriole. Era una piccola città, illuminata, popolata, rumorosa. Da ogni parte scoppiettavano i fuochi delle cucine. Servi, soldati, cuochi, marinai andavano e venivano scambiandosi ordini e domande in tutte le lingue della torre di Babele. Le tende formavano un gran circolo, in mezzo al quale era piantata la bandiera italiana. Di là dalle tende erano schierati i cavalli ed i muli. La scorta aveva il suo piccolo accampamento appartato. Tutto era ordinato militarmente. Riconobbi subito casa mia e corsi a prenderne possesso. V’erano quattro letti da campagna, stuoie e tappeti, lanterne, candelieri, tavolini, seggiole a ìccase, lavamani colle asticciuole strisciate dei tre colori italiani e un grande sventolatore all’indiana. Era un accampamento principesco, da passarci volentieri un annetto. La nostra tenda era posta fra quella dell’ambasciatore e quella degli artisti. Un’ora dopo l’arrivo ci sedemmo a tavola sotto la gran tenda consacrata a Lucullo. Credo che fu quello il pranzo più allegro che sia mai stato fatto dentro i confini del Marocco dalla fondazione di Fez in poi. Eravamo sedici, compreso il console d’America coi suoi due figli e il console di Spagna con due impiegati della Legazione. La cucina italiana riportò un trionfo solenne. Era la prima volta, credo, che in mezzo a quella campagna deserta s’alzavano ad Allà i vapori dei maccheroni al sugo e del risotto alla milanese. L’autore, un grosso cuoco francese venuto per quella sola notte da Tangeri, fu chiamato clamorosamente agli onori del proscenio. I brindisi scoppiarono l’un dall’altro in italiano, in spagnuolo, in verso, in prosa, in musica. Il console di Spagna, un bel castigliano dello stampo antico, gran barba, gran torace e gran cuore, declamò, con una mano sul manico del pugnale, il dialogo di don Juan Tenorio e di don Luis Mendia nel dramma famoso di Josè Zorilla. Si disputò sulla quistione d’Oriente, sugli occhi delle donne arabe, sulla guerra carlista, sull’immortalità dell’anima, sulle proprietà del terribile cobra capello, l’aspide di Cleopatra, dal quale si lasciano morsicare impunemente i ciarlatani marocchini. Qualcuno, in mezzo al clamore della conversazione, mi disse nell’orecchio che mi sarebbe stato riconoscente per la vita se nel mio futuro libro sul Marocco avessi scritto ch’egli aveva ammazzato un leone. Io colsi quest’occasione per pregare i commensali di darmi ciascheduno una nota bene ordinata delle bestie feroci di cui desideravano che li facessi trionfare. Il console di Spagna, per riconoscenza, improvvisò una strofetta castigliana in onore della mia mula, e cantando tutti insieme questa strofetta sopra un motivo dell’Italiana in Algeri, uscimmo dalla tenda per andar a dormire. L’accampamento era immerso in un profondo silenzio. Davanti alla tenda dell’Ambasciatore, che s’era ritirato prima di noi, vegliava il fido Selam, primo soldato della Legazione. Fra le tende lontane passeggiava lentamente, come una larva bianca, il Caid della scorta. Il cielo era tutto scintillante di stelle. Che beata notte, se non avessi avuto quella spina del sonnambulo! Entrando nella tenda, il capitano mi ripetè la raccomandazione. Decisi d’intavolare il discorso quando fossimo a letto. Era indispensabile; ma mi costava un grande sforzo. Il viceconsole avrebbe potuto prender la cosa in mala parte e ne sarei stato dolentissimo. Era un compagno così piacevole! Da schietto siciliano, pieno di fuoco, parlava delle cose più insignificanti collo stile e coll’accento d’un predicatore ispirato. Profondeva gli aggettivi terribile—immenso—divino—ad ogni proposito. Il suo gesto più riposato era di agitare le mani al di sopra della testa. A vederlo discutere, con quegli occhi che gli uscivan dal capo, con quel naso aquilino che pareva volesse agganciare l’avversario, si sarebbe giudicato un uomo irascibile e imperioso; ed era invece la più buona, la più arrendevole pasta di giovanotto che si possa immaginare. —Animo—disse il capitano quando fummo tutti e quattro a letto. —Signor Grande,—io cominciai—lei ha l’abitudine di levarsi durante la notte? Parve molto meravigliato della mia domanda.—No—rispose—e mi spiacerebbe che l’avesse qualchedun altro. Quest’è curiosa! pensai.—Dunque—soggiunsi—lei riconosce che è un abitudine pericolosa. Mi guardò. —Scusi—disse poi—mi pare che su quest’argomento lei non dovrebbe scherzare. —Mi scusi lei, io risposi,—non ho menomamente l’intenzione di scherzare. Non è mia abitudine di scherzare sulle cose tristi. —È una cosa triste davvero, e toccherebbe a lei a scongiurarne le cattive conseguenze. —Questa è bella! Pretenderebbe che andassi a dormire in mezzo ai campi? —Dei due mi pare che ci dovrebbe andar lei e non io. —È una vera impertinenza!—diss’io balzando a sedere sul letto. —Oh stiamo a vedere adesso,—gridò il viceconsole alzandosi istizzito,—che è un’impertinenza il non volersi lasciar ammazzare! Una gran risata del capitano e del comandante troncò la discussione, e prima ancora che essi parlassero, il signor Grande ed io capimmo d’esser stati corbellati tutt’e due. A lui pure avevan fatto credere che io giravo la notte per la casa della Legazione, con un lenzuolo sulle spalle e una pistola nel pugno. La notte passò senz’accidenti, e la mattina mi svegliai in tempo per vedere l’aurora. L’accampamento europeo era ancora immerso nel sonno; soltanto in mezzo alle tende della scorta si cominciava a mover qualcuno. Il cielo era tutto color di rosa ad oriente. Mi avanzai fino in mezzo all’accampamento e rimasi per molto tempo immobile a contemplare lo spettacolo che mi si spiegava d’intorno. Le tende erano piantate sul fianco d’una collina tutta coperta d’erbe, di fichi d’india, d’aloè e d’arbusti fioriti. Vicino alla tenda dell’ambasciatore s’alzava una palma altissima, inclinata graziosamente verso oriente. Davanti alla collina si stendeva una grande pianura ondulata e florida, chiusa lontano da una catena di monti di color verde cupo, di là dalla quale apparivano altri monti azzurrini quasi svaniti nella limpidezza del cielo. Non si vedeva in tutto quello spazio nè una casa, nè una tenda, nè un armento, nè un nuvolo di

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Argomenti: tre ore,    naso aquilino,    respiro affannoso,    grande pianura,    piccolo accampamento

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