Marocco di Edmondo De Amicis pagina 21

Testo di pubblico dominio

tutti. Avevano il lume acceso e mangiavano. Tendendo l’orecchio, colsi qualche parola del loro dialogo. Era assai curioso. Luigi domandava a chi fossero destinati gli schizzi a matita che facevano i due pittori sui loro album.—Oh bella!—rispose il Ranni—al Re, si capisce.—Così senza colori?—domandò l’altro.—Eh no: tornati che saranno in Italia, prima ci metteranno i colori e poi li manderanno.—Chi sa quanto glieli pagano!—Eh molto, si sa. Magari uno scudo il foglio. Un re non bada ai denari.—Temendo d’essere scoperto e sospettato di spionaggio, rinunziai, mio malgrado, a sentire il seguito, e mi allontanai in punta di piedi. Uscii un’altra volta dall’accampamento e girai per qualche minuto in mezzo a lunghe file di cavalli e di mule, fra le quali riconobbi, con una dolce emozione, la mia bianca compagna di viaggio, che pareva assorta in profondi pensieri. Uscito di là, mi trovai davanti alla tenda del signor Vincent, francese, domiciliato a Tangeri, uno di quei personaggi misteriosi che han girato tutto il mondo, parlano tutte le lingue e fanno di tutti i mestieri: cuoco, negoziante, cacciatore, interprete, scopritore d’iscrizioni antiche; aggregatosi con tenda e cavallo all’ambasciata italiana in qualità di alto direttore delle cucine, per andare a vendere al governo di Fez delle uniformi francesi comprate in Algeri. Guardai dentro per uno spiraglio. Era seduto sopra un baule in atto meditabondo, con una grossa pipa in bocca, al chiarore d’un moccoletto confitto in una bottiglia. Che strana figura! Mi richiamò alla mente quei vecchi alchimisti dei pittori olandesi, che meditano in fondo alla loro officina, col viso illuminato dal foco dei lambicchi. Curvo, secco, ossoso, pareva che ogni peripezia della sua vita fosse rappresentata da una ruga del suo viso e da un angolo del suo corpo. Chi sa a che pensava! Chi sa che diavolìo di memorie, di viaggi avventurosi, di bizzarri incontri, di pazze imprese, di strani personaggi, gli turbinava nel capo!—Forse anche, invece che a tutto questo, pensava al prezzo d’un paio di calzoni da turcos o alla sua scarsa provvigione di tabacco.—Nel punto che stavo per dirigergli la parola, spense il lume con un soffio e disparve nell’oscurità come un mago. A pochi passi di là, c’era la tenda del comandante della scorta; un po’ più oltre quella del suo primo ufficiale; e più lontano quella del capo dei cavalieri d’Had-el-Garbia. Queste due erano chiuse; la prima era aperta e vuota. Nell’atto che ci guardavo dentro, sentii alle mie spalle un passo furtivo, e quasi nello stesso punto una mano di ferro mi afferrò per un braccio. Mi voltai: mi vidi in faccia il generale mulatto. Appena mi vide, ritirò la mano, dando in una risata, e disse in tuono di scusa:—Salamu alikum, salamu alikum!—(La pace sia con voi! la pace sia con voi!) M’aveva preso per un ladro. Gli strinsi la mano in segno di riconoscenza e mi rimisi in cammino. Fatti pochi passi, mi parve di vedere a una certa distanza dalle tende un uomo incappato, seduto in terra, col fucile in mano. Mi venne in mente che fosse una sentinella. Guardai intorno, e vidi infatti che a una cinquantina di passi da quella, ve n’era un’altra, e poi una terza: una catena di sentinelle tutt’intorno all’accampamento. Seppi poi che quella vigilanza non era fatta per timore dell’assalto d’una banda d’assassini; ma per guardare le tende dai ladri della campagna, abilissimi in quel genere di furti, esercitati come sono a depredare le tribù arabe attendate. Fortunatamente la mia franca andatura non insospettì alcuna sentinella, e potei finire la mia escursione. Passai accanto a Malek e a Saladino, i due cavalli focosi dell’Ambasciatore, inciampai in qualche altra tartaruga e mi fermai davanti alle tende dei servi a piedi. Erano coricati sopra un po’ di paglia, senza coperte, l’uno a traverso l’altro; ma dormivan tutti d’un sonno così profondo, che non si sentiva un alito, e parevano morti ammucchiati. Il ragazzo dai grandi occhi neri, per la buona ragione ch’era il più piccolo, avea mezzo il corpo fuori della tenda, e poco mancò che non gli mettessi i piedi sul capo. Mi fece compassione; volli che la mattina seguente, svegliandosi, avesse un conforto; e misi una moneta nella mano che riposava sull’erba, colla palma aperta, come per chiedere l’elemosina ai genii della notte. Un mormorìo di voci allegre, che veniva da una tenda vicina, mi distrasse di là. M’avvicinai. Era la tenda dei soldati e dei servi dell’Ambasciata. Pareva che mangiassero e bevessero. Sentii l’odore del fumo del kif. Riconobbi la voce del secondo Selam, di Abd-el-Rhaman, di Alì, di Hamet, di Mammù, di Civo. Era un’orgietta araba in piena regola. E avevan ben diritto di darsi un po’ di spasso, poveri giovani, dopo aver faticato tutto il giorno a piedi, a cavallo, alle tende, alle mense, chiamati da cento parti, in cento lingue, per cento servizi! Per questo non volli turbare la loro allegrezza e m’allontanai cautamente. Fino a quel momento la mia escursione era riuscita a meraviglia; ma era destino che non finisse senza un triste accidente. Non m’ero allontanato di venti passi dalla tenda dei soldati, quando sentii due mani vigorose serrarsi intorno al mio collo e una voce soffocata dall’ira urlarmi una minaccia nell’orecchio. Mi divincolai, mi voltai indietro... Chi era? Era l’autore della Cacciata del duca d’Atene, il mio buon amico Ussi, ravvolto come un fantasma nella sua lunga abbaia bianca, portata dall’Egitto, il quale era uscito pochi momenti prima dalla sua tenda per fare, in direzione contraria, lo stesso mio giro, e m’aveva colto alle spalle. Allora appunto ero arrivato davanti alla tenda dei pittori che chiudeva il cerchio dell’accampamento; il mio viaggio notturno era compiuto, e mi rimbucai nella mia casetta di tela. NOTE: [1] In mezzo ai selvaggi. TLETA DE REISSANA La mattina seguente si partì prima del levar del sole con una nebbia umida e fitta che metteva freddo nelle ossa e ci nascondeva gli uni agli altri. I cavalieri della scorta avevano il cappuccio sul capo e i fucili fasciati; tutti noi eravamo ravvolti nei pastrani e nei mantelli; ci pareva d’essere in autunno, in mezzo a una pianura dei Paesi Bassi. Dietro a me non vedevo distintamente che il turbante bianco e la cappa turchina del Caid; tutti gli altri erano ombre confuse che si perdevano nell’aria grigia. Il sonno e il tempo uggioso mantenevano il silenzio. Andavamo per un terreno ineguale, coperto di palme nane, di lentischi, di ginestre, di pruni, di finocchio selvatico, raggruppandoci e sparpagliandoci di continuo secondo gli incrociamenti e le biforcature infinite dei sentieri. Il sole, apparendo sull’orizzonte, indorò per qualche minuto le nostre guancie sinistre; e poi si rinascose. La nebbia però diradò in maniera da lasciarci vedere la campagna. Era una successione di vallette verdi, nelle quali si scendeva e si risaliva quasi senz’accorgersene, tanto erano dolci i pendii. Le alture eran coperte di aloé e d’olivi selvatici. L’olivo, che in quel paese cresce prodigiosamente, è lasciato allo stato selvatico quasi da per tutto, e gli abitanti fanno lume e si alimentano col frutto dell’argan. Di mano in mano che ci affacciavamo a una valle, cercavamo cogli occhi un villaggio, un gruppo di capanne, qualche tenda. Non si vedeva nulla. Ci pareva di viaggiare alla ventura per una terra vergine. Di valle in valle, di solitudine in solitudine, dopo tre ore circa di cammino, arrivammo finalmente in un punto dove gli alberi più fitti, i sentieri più larghi e qualche armento sparpagliato per la campagna, annunciavano la vicinanza d’un luogo abitato. Uno dopo l’altro alcuni cavalieri della scorta spronarono il cavallo, ci passarono innanzi di galoppo e scomparvero dietro un’altura; altri si slanciarono di carriera a traverso la campagna in direzioni diverse; i rimanenti si disposero in

Tag: tenda    mano    tutti    uno    due    campagna    passi    mezzo    piedi    

Argomenti: due mani,    tre ore,    venti passi,    turbante bianco,    tempo uggioso

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