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Marocco di Edmondo De Amicis pagina 69combattere con furore crescente. Non potendo sfogarsi sui monelli, se la pigliavano cogli uomini. A ogni pancia che spuntasse da una porta, una funata, a modo di avvertimento; a ogni povero diavolo che, passandoci accanto, non si stringesse al muro, un urtone che lo cacciava dieci passi indietro; a ogni vecchia che ci guardasse torvo, i pugni sul viso e un urlo sgangherato nell’orecchio. Indignati di quella brutalità, li avvertimmo con gesti risoluti che smettessero. Quei disgraziati credettero che li rimproverassimo di fiacchezza e si diedero a picchiare più forte. Per giunta, sbucarono non so di dove due ragazzi di dieci o dodici anni, forse parenti dei soldati, armati anch’essi di bastoni; s’aggregarono, bastonatori volontarii, alla scorta, e cominciarono a menar botte così disperate, a uomini, a donne, ad asini, a muli, a vicini, a lontani, che i soldati stessi si videro costretti a raccomandar loro la moderazione. E ad ogni legnata, si voltavano tutti e due a guardare noi tre, come per consigliarci di prenderne atto per ricordarcene nel dare la mancia; e siccome noi ridevamo come matti, pigliavano il nostro riso come un incoraggiamento, e tiravan via a picchiare come anime perdute. Ora che seguirà?—dicevamo noi.—Uno scandalo! una rivoluzione!—Già i legnati brontolavano, qualcuno aveva alzato la mano sui due ragazzi, bisognava uscir di città immediatamente. Il Biseo, nondimeno, esitava ancora, quando, nel passare per una piazzetta piena di gente, un sasso colpì nella testa la mia mula e una carota rasentò la nuca dell’Ussi. Allora ci decidemmo a battere tutti e tre palma a palma, il segnale convenuto per la ritirata. Ma anche questo innocente segnale provocò un baccano. I soldati, per mostrarci che avevan capito, ci risposero battendo le mani; tutta la gente ch’era nella piazza, intendendo forse di canzonarci, si mise a battere; e intanto continuavano a piovere buccie di limone e maledizioni e legnate; e piovevano ancora ch’eravamo vicini alla porta; e quando già scendevamo verso l’accampamento, ci gridavano ancora alle spalle dall’alto delle mura:—Maledetto il padre tuo!—Sia sterminata la vostra razza!—Dio faccia arrostire i vostri bisnonni!— Così ci ricevette la città di Mechinez, e fortunati noi ch’era la città più ospitale dell’Impero! La mattina seguente fu portata all’accampamento una lettiga per il medico, fatta in ventiquattr’ore dai più abili falegnami di Mechinez, i quali ci avrebbero senza dubbio impiegato più di ventiquattro giorni, se non li avesse sollecitati il Governatore con una certa intimazione, a cui sarebbe stato un po’ rischioso di fare il sordo. Era una macchina pesante e mal adatta, che somigliava più a una gabbia per trasportar bestie feroci, che a una lettiga per un malato; assai meglio fatta, nondimeno, di quello che tutti noi prevedessimo; e gli operai che vi diedero sotto i nostri occhi le ultime martellate, n’erano così alteri e si sentivano tanto sicuri della nostra ammirazione, che lavorando, tremavano dall’emozione, e ad ogni nostra parola, mandavan lampi dagli occhi. Quando il Morteo mise nelle loro mani i denari, ringraziarono gravemente, e se n’andarono con un sorriso di trionfo che voleva dire:—Orgogliosi ignoranti, v’abbiamo fatto vedere chi siamo. Verso il tramonto partimmo da Mechinez e camminammo per due ore a traverso la più bella campagna che abbia mai visto in sogno un paesista innamorato. Vedo, sento ancora la divina grazia di quelle colline verdi sparse di roseti, di mirti, di leandri, d’aloè fioriti; lo splendore di quella città di Mechinez indorata dal sole, che si nascondeva al nostro sguardo minareto per minareto, palma per palma, terrazza per terrazza, e più si impiccioliva, più pareva che s’alzasse, come se le crescesse sotto la collina; e l’aria impregnata di profumi che facevano fremere, e le acque che riflettevano i mille colori della scorta, e l’infinita mestizia di quel cielo rosato; vedo, sento ancora tutto questo, e non lo so descrivere! Ah! mi morderei le dita! SUL SEBÙ Era il mezzodì del quinto giorno della nostra partenza da Fez, quando, dopo una cavalcata di cinque ore a traverso una successione di valli deserte, ripassavamo per la gola Beb-el-Tinca e vedevamo un’altra volta dinanzi a noi la vastissima pianura di Sebù inondata d’una luce bianca, ardente, implacabile, di cui il solo ricordo mi fa salire le vampe al viso. Tutti, fuorchè l’Ambasciatore e il capitano, che partecipano della virtù favolosa della salamandra, di star nel fuoco senz’ardere, ci coprimmo il capo come fratelli della Misericordia, ci ravvoltammo con gran cura nelle cappe e nelle coperte, e senza profferire una parola, col mento sul petto, cogli occhi socchiusi, scendemmo nella terribile pianura, confidando nella clemenza di Dio. A un certo punto si sentì la voce del Comandante il quale ci annunziava che era già morto un cavallo. Era morto infatti uno dei cavalli che portavano i bagagli. Nessuno rispose.—Si sa—soggiunse il Comandante spietato;—i cavalli muoiono per i primi.—Anche queste parole furono seguite da un silenzio mortale. Dopo mezz’ora, si sentì la voce fioca d’un altro che domandava all’Ussi a chi avrebbe lasciato il suo quadro di Bianca Cappello. Per tutto il tragitto non si sentirono altre parole. Anche i soldati della scorta tacevano. Il caldo opprimeva tutti. Persino il caid Hamed Ben Kasen, malgrado il grande turbante che gli ombreggiava il viso, gocciolava di sudore. Povero generale! Quella mattina mi dimostrò una pietà di cui mi ricorderò per tutta la vita. Vedendo che rimanevo indietro, venne al mio fianco e si mise a bastonare la mia mula con uno zelo così sviscerato, che in pochi momenti passai dinanzi a tutti, portato via di galoppo, saltellando sulla sella come un automa di gomma elastica, e arrivai all’accampamento cinque minuti prima degli altri, colle budella sottosopra e il cuore pieno di gratitudine. Quel giorno nessuno uscì dalla tenda fino all’ora del desinare, e il desinare stesso fu silenzioso, come se tutti si sentissero già oppressi dal caldo del giorno seguente. Un solo avvenimento, a sera innoltrata, destò un po’ di chiasso nell’accampamento. Eravamo alle frutta, quando udimmo un gridìo lamentevole dalla parte del piccolo accampamento della scorta, e nello stesso tempo un rumore cadenzato di colpi che parevano frustate. Credendo che fossero i soldati o i servi che scherzassero, non ci badammo. Ma a un tratto le grida diventarono strazianti, e sentimmo profferire distintamente, con un accento d’invocazione supplichevole, il nome del fondatore di Fez:—Mulei-Edriss! Mulei-Edriss! Mulei-Edriss!—Ci alzammo tutti da tavola, e correndo verso quella parte, arrivammo in tempo a vedere una tristissima scena. Due soldati della scorta tenevano sospeso, uno per le spalle, l’altro per i piedi, un servo arabo; un terzo lo flagellava disperatamente con una frusta, un quarto teneva in mano una lanterna, gli altri facevano corona, il caid assisteva colle braccia incrociate sul petto. L’Ambasciatore fece rilasciare immediatamente la vittima, che s’allontanò singhiozzando, e domandò al caid che cosa era accaduto.—Nulla, nulla,—rispose,—una piccola correzione.—E soggiunse che aveva fatto punire quell’uomo perchè si divertiva a buttare ai suoi compagni delle pallottole di cuscussù, grave colpa, sacrilegio anzi per un Mussulmano, che deve rispettare ogni alimento prodotto dalla terra come un dono di Dio. Dicendo questo, il povero caid, bonissim’omo in fondo, non riusciva a nascondere, benchè volesse parere impassibile, il dolore d’aver dovuto infliggere quel castigo e la pietà che ne aveva provato; e questo bastò a rimetterlo al suo posto dentro al mio cuore. La notte fummo svegliati da un caldissimo vento di levante, che ci fece balzar fuori della tenda colla bocca spalancata, in cerca d’un filo d’aria respirabile; e all’alba ci Tag: tutti scorta noi due palma caid occhi giorno viso Argomenti: due ore, povero diavolo, dieci passi, cinque ore, cuore pieno Altri libri consultabili online del sito affini al contenuto della pagina: Fior di passione di Matilde Serao L'arte di prender marito di Paolo Mantegazza La trovatella di Milano di Carolina Invernizio Nel sogno di era Storia di un'anima di Ambrogio Bazzero Articoli del sito affini al contenuto della pagina: Come truccarsi per essere perfette Il trucco giusto per gli occhi celesti Acne viso Il trucco giusto per gli occhi scuri Come far durare a lungo il profumo
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