Marocco di Edmondo De Amicis pagina 72

Testo di pubblico dominio

accompagnò, verso sera, fino all’accampamento, ch’era a due ore di cammino dalla sua casa, in un prato pieno di fiori e di tartarughe, tra il fiume Dà, che si divide là presso in un gran numero di canali, e una bella collina coronata d’una tomba di santo dalla cupola verde. A un tiro di fucile dalle nostre tende v’era un gran duar circondato d’aloé e di fichi d’India. Al nostro passaggio, tutti gli abitanti saltaron fuori. Allora vedemmo quanto il governatore el-Abbassi era amato dal suo popolo. Vecchi cadenti, frotte di bimbi, uomini maturi, giovanetti, tutti correvano da lui a farsi mettere la mano sul capo, e se ne tornavano contenti, voltandosi indietro a guardarlo con un’espressione d’affetto e di gratitudine. La presenza però dell’amato Governatore non bastò a salvar noi dai soliti sguardi biechi e dai soliti improperi. Le donne, mezzo nascoste dietro alle siepi, spingevano con una mano uno dei loro figliuoletti a farsi benedire dal Governatore, coll’altra mano un altro figliuolo a dirci ch’eravamo dei cani. Vedemmo dei bimbi alti due palmi, tutti nudi, che appena si reggevano in piedi, venir verso di noi barcolloni, e mostrandoci il pugno grosso come una noce, gridare:—Maledetto il padre tuo!—E siccome avevano paura ad avanzarsi soli, si radunavano in sette o otto, e così stretti in un gruppo, che si sarebbe potuto portar tutto ritto sopra un vassoio, s’avanzavano con aria minacciosa fino a dieci passi dalle nostre mule a balbettare la loro insolenzina. Quanto ci divertimmo! Un gruppo, fra gli altri, s’avanzò contro il Biseo per augurargli che fosse arrostito non so quale suo parente. Il Biseo alzò la matita: i due primi, dando indietro atterriti, urtarono gli altri; e mezzo l’esercito andò in terra a gambe levate. Persino il Governatore diede in uno scoppio di risa. ARZILLA Dopo lo spettacolo delle grandi città decadute, di un popolo moribondo e d’un paese bello ma triste; dopo tanto sonno tanta vecchiezza e tante rovine, ecco il lavoro eterno e la gioventù immortale; ecco l’aria che ravviva il sangue, la bellezza che rallegra il cuore, l’immensità in cui s’espande l’anima! Ecco l’Oceano! Con che fremito di piacere lo salutammo! L’apparizione inaspettata d’un amico o d’un fratello, non ci sarebbe riuscita più cara della vista di quella lontana curva luminosa che recideva netto dinanzi a noi, come una immensa falce, l’islamismo, la schiavitù, la barbarie, e pareva che portasse più diritto e più libero il nostro pensiero all’Italia.—Bahr-el-Kibir!—(Il gran mare) esclamarono alcuni soldati. Altri dissero:—Bahr-ed-Dholma!—(Il mare delle tenebre). Tutti, involontariamente, affrettarono il passo; le conversazioni, che cominciavano a languire, si rianimarono; i servi intonarono i canti sacri; l’intera carovana, in pochi minuti, prese un’aria d’allegrezza e di festa. La sera del 19 Giugno ci accampammo a tre ore da Laracce, e la mattina seguente entrammo in città, ricevuti alle porte dal figlio del Governatore, da venti soldati senza fucili e senza calzoni schierati lungo la strada, da un centinaio di ragazzi cenciosi, e da una banda composta d’un tamburino e d’un trombettiere, che vennero poco dopo a chiedere la mancia con uno straziante concerto nel cortile dell’agente consolare d’Italia. Su quella costa sparsa di città morte,—come Salè, Azamor, Safi, Santa-Cruz,—Laracce conserva ancora un po’ di vita commerciale che le basta per essere considerata uno dei principali porti del Marocco. Fondata da una tribù berbera nel secolo XV, fortificata sulla fine dello stesso secolo da Mulei-ben-Nassar, abbandonata alla Spagna nel 1610, ripresa da Mulei Ismael nel 1689, ancora fiorente sul principio di questo secolo, popolata ora da quattromila circa tra mori ed ebrei, sorge sopra la china d’un colle a sinistra della foce del Kus, il Lixus degli antichi, il quale le forma un porto ampio e sicuro, chiuso però da un banco di sabbia, che impedisce l’entrata ai grandi bastimenti. Nel porto marciscono le carcasse di due piccole cannoniere, ultimo miserando avanzo della flotta che altre volte portò gli eserciti conquistatori in Ispagna e sgomentò il commercio europeo. Sulla riva destra del fiume, rimane qualche rovina di Lixus, città romana. Dietro la collina si stende un ampio bosco d’alberi giganteschi. La città non ha dentro altro di notevole che una piazza di mercato circondata da piccoli portici sorretti da colonnine di pietra; ma vista dal porto, tutta bianca sul verde cupo della collina, stretta in una cerchia di alte mura merlate d’un fosco color calcare, riflessa dalle acque azzurre del fiume, sotto quel cielo limpido, presenta un aspetto grazioso, e malgrado la vivezza dei colori, quasi malinconico, come se facesse pietà il veder quella gentile città così sola e silenziosa su quella costa barbaresca, dinanzi a quel porto deserto, in faccia a quel mare immenso. L’accampamento fu posto la sera sulla riva destra del Kus e levato per tempo la mattina seguente. Si doveva andare ad Arzilla, distante quattr’ore da Laracce. Il convoglio dei bagagli partì la mattina; l’Ambasciata verso sera. Io, per veder la carovana sotto un nuovo aspetto, partii col convoglio dei bagagli. E me ne trovai contento, perchè fu un tragitto pieno d’avventure. Le mule cariche, accompagnate dai mulattieri e dai servi, andavano a gruppi, a gran distanza gli uni dagli altri. Partii solo e camminai per quasi un’ora sulle colline dove non vidi che una mula, condotta da un servo arabo, la quale portava due bisaccie di paglia, di cui una conteneva la testa e l’altra i piedi d’un palafreniere dell’Ambasciatore preso da una fortissima febbre, che gemeva da far pietà ai sassi. Il poveretto stava così coricato a traverso la mula, colla testa spenzoloni, col corpo inarcato, col sole negli occhi, e in quella maniera era venuto da Karia-el-Abbassi e doveva andare a Tangeri! E in quella maniera sono trasportati nel Marocco tutti i malati che non han denaro da noleggiare una lettiga e due mule, e fortunati coloro che possono almeno ficcar la testa in una bisaccia! Dalle colline discesi sulla riva del mare. Qui raggiunsi il cuoco, il Ranni e Luigi il calafato, che s’unirono a me e non mi lasciarono più fino ad Arzilla. Per un’ora trottammo sulla sabbia, deviando di tratto in tratto dal cammino diritto, per scansare la marea. In quel tempo il cuoco, che per la prima volta in tutto il viaggio poteva parlarmi liberamente, m’aprì il suo cuore. Pover’uomo! Tutte le avventure del viaggio, tutte le grandi cose vedute, non lo avevano liberato da un pensiero doloroso che gli toglieva la pace fin dalla prima settimana del suo soggiorno in Tangeri. E questo dolore era una gelatina mal riuscita, fatta da lui un giorno che aveva pranzato in casa il Ministro di Francia; gelatina che aveva dato il primo crollo alla sua riputazione nel concetto dell’Ambasciatore, e che pure era riuscita male non per colpa sua, ma perchè il Marsala era cattivo. Fez, la corte, Mechinez, il Sebù, l’Oceano, egli li aveva visti, egli vedeva tutto a traverso quel disco di brodo condensato. O piuttosto non aveva visto e non vedeva niente perchè il suo corpo era bensì nel Marocco, ma l’anima viveva in piazza Castello. Gli domandai le sue impressioni di viaggio: erano poca cosa. Egli non sapeva capire chi potesse essere quella bestia che aveva stampato quel paese. Mi raccontò delle sue fatiche, delle sue liti cogli sguatteri arabi, delle difficoltà di far da mangiare in mezzo ai deserti, del suo desiderio immenso di riveder Torino; ma ricadeva poi sempre su quella desolante gelatina del Ministro di Francia.—Io non so far cucina? Mi faccia il piacere, vada Lei, quando sia a Torino,—mi diceva toccandomi il braccio per distrarmi dalla contemplazione dell’Oceano;—vada a domandarlo al conte tale, alla contessa tale, ecc., che ho serviti per anni ed anni! Vada dal generale Ricotti,

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Argomenti: due ore,    tre ore,    dieci passi,    lavoro eterno,    gentile città

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