Marocco di Edmondo De Amicis pagina 27

Testo di pubblico dominio

salvi dagli spiriti maligni!—Dopo un’altr’ora di solitudine incontrammo un corriere a piedi; un povero arabo macilento, che portava le lettere in una borsa-di cuoio, appesa a tracolla. Giunto davanti a noi si fermò per dire che veniva da Fez e che andava a Tangeri. L’Ambasciatore gli diede una lettera per Tangeri ed egli riprese il suo cammino a passo frettoloso. Questo, e non altro, è il servizio postale del Marocco, e nessuna vita è più miserabile di quella che menano quei corrieri. Non mangiano, strada facendo, che un po’ di pane e qualche fico; non si fermano che poche ore della notte per dormire, con una corda legata al piede, alla quale appiccan fuoco prima di addormentarsi, per essere svegliati presto; camminano giorni interi senza trovare nè un albero, nè una goccia d’acqua; attraversano boschi infestati dai cignali, superano monti inaccessibili ai muli, passano i fiumi a nuoto, vanno di passo, di corsa, ruzzoloni giù per le chine, a quattro gambe su per le rupi, sotto il sole d’agosto, sotto le piogge interminabili dell’autunno, contro il vento infocato del deserto, in quattro giorni da Tangeri a Fez, in una settimana da Tangeri a Marocco, da una estremità all’altra dell’Impero, soli, scalzi, seminudi, e quando sono arrivati... ripartono! E fanno questo viaggio per poche lire! A mezza strada, circa, tra la città d’Alkazar e il luogo dov’eravamo diretti, il terreno cominciava a sollevarsi, e a poco a poco, quasi senza accorgercene, giungemmo sopra un’altura, di là dalla quale si stendeva un’altra pianura immensa coperta per vastissimi spazi di fiori gialli, rossi e bianchi che presentavano l’apparenza di grandi strati di neve rigati di porpora e d’oro. Per quella pianura ci venivano incontro di galoppo duecento cavalieri coi fucili ritti sulle selle, preceduti da una figura tutta bianca, che Mohammed Ducali riconobbe ed annunziò ad alta voce:—Il governatore Ben-Auda! Eravamo arrivati al confine della provincia dei Seffiàn, chiamata pure Ben Auda, dal nome di famiglia del suo governatore, che significa figlio della cavalla; il nome che m’aveva fatto tanto fantasticare prima di partire da Tangeri. Discendemmo nella pianura; i duecento cavalieri dei Seffiàn si schierarono sopra una sola linea, accanto ai trecento di Laracce, e il governatore Ben-Auda si presentò all’Ambasciatore. Se vivessi cent’anni, non dimenticherei quella faccia. Era un vecchio secco, coll’occhio truce, col naso forcuto, con una bocca senza labbra, tagliata in forma d’un semicircolo rivolto in giù. La prepotenza, la superstizione, Venere, il kif, l’ozio e la sazietà d’ogni cosa, gli erano scritti sul viso. Un grosso turbante gli copriva la fronte e le orecchie. Un pugnale ricurvo gli pendeva al fianco. L’Ambasciatore congedò il comandante della scorta di Laracce, che s’allontanò subito di galoppo coi suoi cavalieri; e ci rimettemmo in cammino colla scorta nuova, che cominciò immediatamente le cariche e i fuochi. Erano faccie più nere, vestiti più variopinti, cavalli più belli, grida più strane, cariche più selvaggiamente impetuose di quelle che avevamo visto fino allora. Più andavamo innanzi, e più ogni cosa pigliava colore e contorno schiettamente marocchino. Fra quella moltitudine ci diedero nell’occhio alla prima dodici cavalieri vestiti con eleganza principesca e montati su cavalli bellissimi, che gli stessi arabi della scorta guardavano con ammirazione. Cinque di questi eran giovanotti di forme colossali che parevan fratelli; tutti e cinque di viso pallido e di grandi occhi neri scintillanti all’ombra di turbanti enormi; che ci passavano e ci ripassavano accanto, a briglia sciolta, col capo rovesciato indietro in un atteggiamento superbo. Come ci sarebbero state bene, su quelle selle color di porpora, fra quelle dieci braccia convulse, cinque odalische rapite al serraglio d’un Sultano! Belli! noi gridavamo; stupendi! splendidi! Ed essi rispondevano al nostro applauso con una spronata ed un urlo, e sparivano in mezzo al fumo, roteando in alto i lunghi fucili damascati d’oro colla gioia febbrile del trionfo. Quei cinque eran figli, gli altri nipoti del governatore Ben-Auda. Le cariche e le fucilate durarono per più d’un’ora, fin che giungemmo a un giardino del Governatore, dove si discese per riposare. Era un boschetto di limoni e di aranci, piantati a file parallele, e fitti in maniera che formavano una volta intricatissima di verzura, sotto la quale si godeva un’ombra, un fresco e un profumo di paradiso. In pochi momenti quell’oasi deliziosa fu ingombra e circondata di cavalli, di mule, di fuochi per le cucine, di servi affaccendati, di soldati dormenti. Il governatore scese con noi e ci presentò i suoi figliuoli. Ah! giuro che in quel momento, se avessi visto le cinque odalische slanciarsi al loro collo, non avrei nemmeno osato d’invidiarli, tanto eran belli, maestosi ed amabili. L’uno dopo l’altro ci strinsero la mano facendo un leggero inchino, e abbassando gli occhi sorridenti con una timidezza infantile. Subito dopo cercarono il medico. Il signor Miguerez si presentò domandando che cos’avevano. In presenza di tutti noi, senza profferir parola, si scopersero tutti e cinque, quasi nello stesso tempo, il braccio sinistro.... Oh povere le mie odalische! Avevan tutti e cinque il braccio, dalla spalla alla mano, coperto d’un’orribile erpete sifilitica. —Ereditaria,—disse un di loro. E il padre, là presente, soggiunse freddamente:—Ereditaria. —Ed hanno qui vicine le acque sulfuree,—esclamò il medico;—potrebbero facilmente curarsi! Ma no signori! Bisogna che perdano il tempo e la salute coi versetti del Corano e cogli amuleti dei ciarlatani! Diede loro un medicinale, si ricopersero il braccio e s’allontanarono pensierosi. Poco dopo ci sedemmo in mezzo al giardino sopra un bellissimo tappeto di Rabat, su cui ci fu servita la colezione. Il governatore Ben-Auda sedette sopra una stuoia a venti passi da noi, e si fece egli pure portar la colezione dai suoi schiavi. Allora seguì uno scambio curiosissimo di cortesie fra lui e l’Ambasciatore. Il Ben-Auda mandò per il primo ad offrire un vaso di latte; l’Ambasciatore gli fece portare in ricambio una bistecca. Al latte tenne dietro il burro, alla bistecca una frittata, al burro un piatto dolce, alla frittata un scatola di sardine; tutto questo accompagnato da mille gesti freddamente cerimoniosi, e posar delle mani sul petto, e sguardi rivolti al cielo con un’espressione comicissima di voluttà gastronomica—Il dolce, tra parentesi, era una specie di torta fatta di miele, d’ova, di burro e di zucchero, della quale gli arabi sono ghiottissimi, e a cui si riferisce una strana superstizione: che se mentre la donna sta cuocendola, entra per caso un uomo nella stanza, la torta va a male, ed anco potendo, non è più prudente il mangiarne.—E il vino?—domandò uno.—Non gli si manda a offrire del vino?—Qui nacque una discussione. Si assicurava che il governatore Ben-Auda fosse, in segreto, devotissimo alla bottiglia; ma come avrebbe potuto ber vino in presenza dei suoi soldati? Fu deciso di non mandargliene. Mi parve però che volgesse alle bottiglie degli sguardi molto soavi; assai più soavi di quelli che rivolgeva a noi. Per tutto il tempo che stette là sulla stuoia, fuorchè nell’atto che ringraziava dei doni, serbò una serietà, un cipiglio, un’espressione di dispetto e d’orgoglio, che mi fece più volte desiderare d’aver là ai miei ordini, per farglieli sfilare sotto il naso, i nostri quaranta battaglioni di bersaglieri. Mohammed Ducali mi raccontò in quel frattempo un episodio molto notevole della storia dei Ben-Auda, nelle mani dei quali è da tempo antico il governo della terra dei Seffiàn. Gli abitanti di questa terra hanno fama di turbolenti e di valorosi; e si dice che han dato prove splendide di valore nella recente guerra contro la Spagna, nella quale morì, alla

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Argomenti: venti passi,    tempo antico,    pugnale ricurvo,    gioia febbrile,    servizio postale

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