Marocco di Edmondo De Amicis pagina 39

Testo di pubblico dominio

cenno di sì.—Bevete dunque.—Uno vuota mezza la bottiglia d’un fiato; l’altro, d’un fiato, la finisce; poi si metton tutti e due una mano sul petto e guardano il cielo cogli occhi luccicanti di voluttà. Ci rimettiamo in cammino. Incontriamo altri arabi, uomini, donne e ragazzi, che mi guardano con grande stupore. Uno, fra gli altri, dice alcune parole, alle quali i soldati rispondono con un brusco cenno negativo. Ho poi saputo che, credendomi arrestato, aveva detto:—Ecco un cristiano che ha rubato all’Ambasciatore.—Si vede qualche villaggio di case bianche sulla sommità delle alture che fiancheggiano la valle; spesseggiano le cube, le palme, gli alberi fruttiferi, i leandri fioriti, i roseti; la campagna è tutta verdissima, e comincia a mostrare qua e là qualche traccia di divisione di poderi. Entriamo finalmente in una gola angusta e tortuosa, formata da due muraglie di roccia; uscendo dalla quale, ci troviamo sul terreno dell’accampamento. Siamo sulla sponda del Miches, affluente del Sebù, vicino a un piccolo ponte di muratura costrutto diciassette anni sono, in una conca formata da un semicerchio di colline rocciose. Il cielo grigio come una vôlta di piombo piove una luce smorta e uggiosa, che ci costringe a star sette ore immobili sotto le tende. Il termometro segna quarantun grado. L’aria è infocata e grave. Fra le tende non si sente altro che il canto dei grilli e il suono della chitarra del Ducali. Una noia profonda pesa su tutto l’accampamento. Ma verso sera tutto cangia. Una passata d’acqua rinfresca l’aria, un fascio di raggi abbarbaglianti, prorompendo come una corrente di luce elettrica per l’apertura della gola, indora una metà del campo; arrivano corrieri da Tangeri, corrieri da Fez, curiosi dai villaggi; due terzi della carovana si tuffano nel fiume; e il desinare è rallegrato dall’apparizione d’un nuovo personaggio, venuto dalla gran città dei Sceriffi: il moro Scellal, un altro dei protetti della Legazione d’Italia che ha una lite pendente col Governo del Sultano: il più voluminoso turbante, il più rotondo faccione, la più beata pinguedine moresca che siasi veduta da Tangeri in poi. La mattina seguente, all’alba, ci rimettiamo in cammino, senz’altra scorta che i quaranta soldati comandati da Hamed Ben Kasen. È scoppiata una rivolta nelle terre confinanti coll’Algeria, e tutta la cavalleria della provincia di Fez è stata immediatamente mandata contro i ribelli.—Vedremo molte teste appese alle porte di Fez,—dice il Ducali. Per due ore camminiamo fra le colline in mezzo alle ginestre e ai lentischi. Poi sbocchiamo nella vastissima pianura di Fez, coronata di montagne e di colli, biondeggiante di grano, sparsa di grandi duar, percorsa dal fiume della Fontana azzurra, che si va a versare nel Miches, e dal Fiume delle perle, affluente del Sebù, che va a dividere in due la città sacra dell’Impero; sorvolata da stormi di grù, d’oche selvatiche, di tortore, di pernici, d’aghironi; lussureggiante di vegetazione, piena di luce, quieta e ridente come un immenso giardino. Piantiamo l’accampamento sulla riva del fiume della Fontana azzurra. La giornata passa in un lampo, tra le caccie, le visite ai duar, gli ebrei che vengon da Fez a raccontarci dei grandi apparecchi dell’esercito, i messi della corte che portano i saluti del Sultano; le famiglie arabe che guadano il fiume, in lunghe file, prima il cammello, poi gli uomini, poi le donne coi bimbi sul dorso, poi i ragazzi, poi i cani a nuoto; le carovane che passano, le frotte di curiosi che accorrono, un tramonto che innamora e la notte più luminosa ch’abbia mai contemplato occhio umano. La mattina all’alba di nuovo in cammino. Si rientra fra le colline, si torna a discendere nella pianura, e s’infila una strada serpeggiante incassata fra due rive, che ci nascondono l’orizzonte. Tutt’a un tratto una voce sonora grida:—Ecco Fez!—Tutti si fermano. Diritto, davanti a noi, lontano parecchie miglia, ai piedi delle montagne, si vede una vasta selva di torri, di minareti e di palme, velata leggermente dalla nebbia. Un allegro:—Ci siamo!—prorompe nello stesso punto da tutte le bocche in italiano, in spagnuolo, in francese, in arabo, in genovese, in siciliano, in napoletano; e al breve silenzio della prima meraviglia, succede una conversazione rumorosa. Ci rimettiamo in cammino e andiamo ad accamparci, per l’ultima volta, ai piedi del monte Tagat sulla riva del Fiume delle perle, a un’ora e mezzo da Fez. Qui per tutta la giornata è un andirivieni e un affaccendamento che ci pare il quartier generale d’un esercito in guerra. Sono messi del Sultano, messi del primo ministro, messi del gran cerimoniere, messi del Governatore di Fez, ufficiali, maggiordomi, negozianti, patenti de’ mori della carovana, tutta gente ben vestita, linda, cerimoniosa, circonfusa dell’aura della corte e della metropoli, che parla con voce grave e gesti maestosi dell’esercito formidabile, della folla immensa, del palazzo delizioso che ci aspetta. L’entrata a Fez è stabilita per le otto della mattina seguente. All’alba tutti sono in piedi. È un gran lavorìo di rasoi, di spazzole, di pettini, di striglie, e un’allegrezza che ci rifà ad usura di tutte le fatiche del viaggio. L’Ambasciatore si mette il suo berretto dorato, Hamed Ben Kasen la sciabola di gala, Selam un caffettano color di rosa, Civo un fazzoletto verde intorno al capo, segno di grande solennità; tutti i servi, la cappa bianca; tutti i soldati della scorta, le armi lucide; tutti gl’italiani, la roba più sfoggiata dei loro bauli. Siamo, fra tutti, un centinaio, e si può affermare che l’Italia non ha mai avuto un’ambasciata più bizzarramente composta, più pomposamente colorita, più allegramente impaziente, più impazientemente aspettata di questa. Il tempo è bellissimo, i cavalli scalpitano, i caic ondeggiano al venticello della mattina, tutti i volti brillano, tutti gli sguardi si fissano sull’Ambasciatore che conta i minuti sull’orologio. Son le otto—un cenno—tutti a cavallo—e avanti. Ah! che vuol dire essere eternamente bambino! Mi sento battere il cuore! FEZ Non abbiamo ancora fatto mezzo miglio verso la città, che siamo già circondati da una folla d’arabi e di mori accorsi da Fez e dalla campagna, parte a piedi, parte a cavallo a mule ed a asini, a due a due per cavalcatura, come gli antichi Numidi, smaniosi a tal segno di vederci che i soldati della scorta, perchè non ci si stringano addosso, sono costretti a spazzare la strada a colpi di calcio di fucile. Il terreno essendo basso, la città di Fez, della quale si vedevano le mura merlate dall’accampamento, ci rimane per un buon pezzo nascosta. Poi, tutt’a un tratto, riapparisce e vediamo dinanzi alle mura un immenso formicolìo bianco e porporino, che pare una miriade di gigli e di rose che tremolino al vento. La città si nasconde daccapo e daccapo ricompare, ma questa volta vicinissima, e fra noi e le sue mura, il popolo, l’esercito, la corte, una pompa, uno splendore, una bizzarria, una bellezza che in quel punto mi fece cadere di mano le briglie, e in questo momento la penna. Una schiera di ufficiali a cavallo ci viene incontro di galoppo, saluta, si divide in due e s’unisce alla scorta. Dietro costoro, un grosso stuolo di cavalieri vestiti pomposamente, montati su cavalli bellissimi, preceduti da un moro di alta statura, col turbante bianco e il caffettano roseo, s’avanza verso di noi. È il gran cerimoniere Hadje Mohammed Ben Aissa, cogli ufficiali di corte, che dà il benvenuto all’Ambasciatore in nome del Sultano, e s’accompagna alla scorta. Andiamo innanzi, fra due ali di soldati di fanteria che trattengono a stento la folla. Che soldati! Sono vecchi, uomini maturi, e ragazzi di quindici, di dodici, persino di nove anni, vestiti di rosso scarlatto, colle gambe nude, colle pantofole gialle, schierati, senz’ordine di statura, sopra una sola riga, coi

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Argomenti: due ore,    mezzo miglio,    sette ore,    turbante bianco,    piccolo ponte

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