Marocco di Edmondo De Amicis pagina 29

Testo di pubblico dominio

vedermi morto? Oh che pais, mi povr’om! Tutti a parlo e nssun a l’è bon a fesse capì! (Tutti parlano e nessuno è buono a farsi capire). Appena riebbe un po’ di fiato gli accennai il Santo che continuava a urlare, e gli domandai: —Ebbene, che cosa ne dite di quelle impertinenze? Alzò gli occhi verso la cuba, guardò fisso il Santo per qualche momento, e poi facendo un atto di profondo disprezzo rispose con accento piemontese: —Guardo e passo! E rientrò maestosamente nella tenda. KARIA-EL-ABBASSI Levato l’accampamento, ci mettemmo in cammino nell’ordine solito, e fra le grida e le fucilate dei duecento cavalieri del Ben-Auda, arrivammo dopo due ore a un piccolo corso d’acqua che segna il confine della terra dei Seffiàn. Nel momento che il portabandiera si voltava per dire:—Ecco il fiume;—di dietro a un rialto di terreno della riva opposta uscì improvvisamente una gran folla di cavalieri, in mezzo ai quali ci colpì a primo aspetto la figura elegante e gentile del Governatore. Era Bu-Bekr-ben-el-Abbassi, governatore della provincia che si stende fra la terra dei Seffiàn e il grande fiume Sebù. La scorta del Ben-Auda ci voltò le spalle e disparve; l’ambasciata guadò il fiume e si trovò circondata dalla scorta nuova. Bu-Bekr-ben-el Abbassi strinse vivamente la mano all’ambasciatore, fece un saluto amichevole al Ducali, suo antico compagno di scuola, e diede il benvenuto a tutti gli altri con un gesto pieno di maestà e di grazia. Ci rimettemmo in cammino. Per un pezzo, nessuno di noi potè staccar gli occhi da quell’uomo. Era il più simpatico governatore che avessimo incontrato fino allora. Di statura mezzana, di forme snelle, bruno, aveva un occhio penetrante e dolce, un bel naso aquilino e una folta barba nera; e sorridendo, mostrava due file di denti bellissimi. Era tutto ravvolto in una cappa fine e bianca come la neve, col cappuccio tirato sul turbante; e montava un cavallo nero corvino, con tutta la bardatura color celeste. Doveva essere un uomo generoso, amato e contento. E fu un inganno della mia fantasia, o anche l’aspetto dei duecento cavalieri di Karia-el-Abbassi rifletteva vagamente la gentilezza del Governatore. Mi parvero visi aperti e pacati di gente che da molti anni godesse la grazia miracolosa d’un governo umano. E quest’apparenza, e le capanne che cominciavano a farsi più frequenti per la campagna, e il tempo sereno raffrescato da un’arietta odorosa, mi diedero per qualche momento l’illusione che quella provincia fosse un oasi di prosperità e di pace in mezzo al miserando impero dei Sceriffi. S’attraversò un villaggio, formato da due file di tende di pelo di cammello, chiuse con canne e fascine: ogni tenda fiancheggiata da un orticello cinto da una siepe di fichi d’India. Di là dalle tende pascolavano vacche e cavalli; davanti, sulla nostra strada, v’era qualche gruppo di bimbi mezzi nudi, accorsi per vederci; le donne e gli uomini coperti di cenci, ci guardavano di dietro alle siepi. Nessuno ci mostrò i pugni, nessuno ci maledì. Appena fummo fuori del villaggio, tutti uscirono dalle loro capanne, e allora vedemmo una turba di qualche centinaio di pezzenti neri, luridi, attoniti, che ci fecero l’effetto della popolazione risuscitata d’un camposanto. Alcuni, correndo, ci tennero dietro per un pezzo; altri disparvero dopo pochi momenti dietro un rialto del terreno. La configurazione del paese che percorrevamo, dava luogo a una mirabile varietà d’effetti pittoreschi della scorta e della carovana. Era una successione di valli profonde, parallele, formate da grandi onde di terreno, tutte fiorite come giardini. Passando d’una valle in un’altra, si perdeva di vista la scorta per qualche momento; poi si vedevano spuntare sulla sommità dell’altura, dietro di noi, prima tutte le punte dei fucili, poi i fez e i turbanti, poi i visi, e man mano le persone intere e i cavalli, come se uscissero dal seno della terra. Arrivati sopra un’altura vedevamo, voltandoci indietro, scorazzare quei duecento cavalli giù nella valle piena di fumo e rimbombante di fucilate; e via via su tutte le alture che ci eravam lasciate alle spalle, cavalli, muli, servi, soldati, che apparivano un momento sulle sommità e sparivano subito come se precipitassero in un burrone. Vista a traverso tutte quelle valli, la carovana pareva interminabile e presentava l’aspetto grandioso d’un esercito di spedizione o d’un popolo emigrante. Arrivammo finalmente a un villaggio, Karia-el-Abbassi, formato dalla casa del Governatore, e da un gruppo di capanne e di casupole ombreggiate da qualche fico e da qualche olivo selvatico. Il Governatore ci offerse di riposare in casa sua: la carovana tirò innanzi fino al luogo designato per l’accampamento. S’attraversarono due o tre cortiletti chiusi fra quattro muri nudi, e s’entrò in un giardino, sul quale s’apriva la porta principale della casa di Ben-el-Abbassi: una casetta bianca, senza finestre, silenziosa come un convento. Il governatore era scomparso. Alcuni schiavi mulatti ci fecero entrare in una piccola stanza a terreno, pure bianca, senz’altra apertura che la porta principale, e una porticina in un angolo. V’erano due alcove, tre materasse bianche stese sul pavimento a musaico e qualche cuscino ricamato. Era la prima volta che riposavamo fra quattro pareti dopo la nostra partenza da Tangeri! Ci sdraiammo voluttuosamente nelle alcove e stemmo aspettando con viva curiosità la continuazione dello spettacolo. Il Governatore ricomparve, ravvolto in un caic bianchissimo, che gli scendeva dal turbante fino ai piedi. Lasciò le babbuccie gialle in un canto e sedette, coi piedi nudi, sopra una materassa, in mezzo al Ducali e all’Ambasciatore. Gli schiavi portarono vasi di latte e piatti di dolci, ed egli stesso, Ben-el-Abbassi, fece il tè e lo versò in bellissime tazzine di porcellana chinese, che il suo servo favorito, un giovane mulatto dal viso rabescato, portò in giro ad una ad una. Non si può dire la grazia e la dignità che aveva nell’aspetto e nei modi quel governatore, probabilmente ignorantissimo, di poche migliaia d’arabi attendati, che forse in tutta la sua vita non aveva avuto che fare con cinquanta persone civili! Messo nel più aristocratico salotto d’Europa, nessuno avrebbe avuto una sillaba a ridire sopra il menomo dei suoi movimenti. Era pulito, lindo, odoroso come un’odalisca uscita dal bagno. Ad ogni movimento che facesse, il caic rimosso lasciava trasparire qui un po’ di color di rosa, là un po’ d’azzurro, qua un po’ di ranciato, tutti i colorini pomposi del vestimento nascosto, che mettevano una gran voglia di strappargli il velo per vedere che meraviglie ci avesse sotto, come fanno i bambini ai fantocci. Parlava con dolcezza, sorridendo e guardandoci senza apparenza di curiosità, come se ci avesse visti il giorno prima. Non era mai uscito dal Marocco, diceva che avrebbe visto volentieri le nostre strade ferrate e i nostri grandi palazzi, e sapeva che in Italia c’eran tre città che si chiamavano Genova, Roma e Venezia. Mentre egli parlava, si aperse la porticina ch’era dietro a lui, e fece capolino una bella ragazzetta mulatta di dieci o dodici anni, che volse intorno rapidamente due grand’occhi spaventati e curiosi, e disparve. Era una figliuola del governatore e d’una nera. Il governatore se n’accorse e sorrise. Seguì un lungo intervallo di silenzio. In mezzo alla stanza fumava l’aloè nei profumieri; davanti alla porta v’era un drappello di schiavi attoniti; dietro agli schiavi s’alzava un gruppo di palme; dietro le palme rideva il sereno purissimo del cielo d’Africa. Tutt’a un tratto, non so come, rimasi profondamente stupito di trovarmi in quel luogo e pensai a me stesso, seduto nella mia cameretta a Torino, come a un’altra persona. Il Governatore, alzandosi, mi richiamò al sentimento della realtà. Strinse la mano a tutti, infilò i piedi nelle babbuccie, s’inchinò con

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Argomenti: due ore,    due file,    cavallo nero,    naso aquilino,    tre città

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