Marocco di Edmondo De Amicis pagina 13

Testo di pubblico dominio

volta sola mi ricordo d’aver visto lavorare la terra. Un arabo stimolava un asino e una capra attaccati a un aratro piccolissimo, di forma bizzarra, costrutto forse come s’usavano quattromil’anni fa; il quale scavava un solco appena visibile in un terreno sparso di sassi e d’erbaccie. Qualcuno mi assicurò d’aver visto più d’una volta attaccato all’aratro un asino e una donna, e questo può dare un’idea dello stato dell’agricoltura nel Marocco. Il solo concime col quale governan la terra è la cenere della paglia che bruciano dopo il raccolto; e la sola cura usata per non stancarne la fecondità è di lasciarvi crescere l’erba per i pascoli il terz’anno, dopo avervi seminato grano e saggina nei primi due. Malgrado questo, la terra s’impoverisce dopo pochi raccolti, e allora i campagnuoli erranti vanno a dissodare nuovi terreni, che abbandonano poi alla loro volta per ritornare agli antichi; e così non è mai coltivata simultaneamente che una piccolissima parte delle terre arabili; di quelle terre che, anche mal coltivate, riportano cento volte la semenza che vi si sparge. La più bella passeggiata fu quella al capo Spartel, l’Ampelusium degli antichi, che forma l’estremità nord-ovest del continente africano: un monte di pietra bigia, alto trecento metri, tagliato a picco sul mare, e aperto sotto, sin da tempi antichi, in vaste caverne, la maggiore delle quali era consacrata ad Ercole: specus Herculi sacer. Sulla sommità di questo monte si alza il faro famoso, eretto da pochi anni, e mantenuto con una espressa contribuzione dalla maggior parte degli Stati d’Europa. Salimmo sulla cima della torre, fin dentro alla grande lanterna, che manda il suo all’erta luminoso alla distanza di venticinque miglia. Di lassù l’occhio spazia su due mari e due continenti. Si vedono le ultime acque del Mediterraneo, e l’immenso orizzonte dell’Atlantico, il mare delle tenebre, Bar-ed-Dolma, come lo chiamano gli arabi, che flagella i piedi della roccia. Si vede la costa spagnuola dal capo Trafalgar fino al capo d’Algesira; la costa africana del Mediterraneo fino alle montagne di Ceuta, i septem fratres dei Romani; e lontano, vagamente, lo scoglio enorme di Gibilterra, la sentinella eterna di questa porta del vecchio continente, termine misterioso del mondo antico, diventato Favola vile ai naviganti industri. In queste passeggiate non incontravamo che pochissima gente: per lo più arabi a piedi, che ci passavano accanto senza quasi guardarci, e qualchevolta un moro a cavallo, che doveva essere un personaggio importante o per denaro o per carica, accompagnato da un drappello di servi armati, il quale, passando, ci lanciava uno sguardo sprezzante. Le donne s’imbacuccavano con maggior cura che in città, alcune brontolando, altre voltandoci bruscamente le spalle. Qualche arabo, invece, ci si fermava dinanzi, ci guardava fisso, mormorava alcune parole quasi in tuono di chi domanda un favore e poi tirava innanzi senza voltarsi. Da principio non capivamo che cosa volessero dire. Ci fu poi spiegato che ci pregavano di domandare a Dio una grazia per loro. È una superstizione molto sparsa fra gli arabi che la preghiera dei mussulmani essendo graditissima a Dio, egli suol tardare lungamente ad accordare le grazie che gli domandano, per godere più a lungo il piacere di sentirsi pregare; mentre la preghiera d’un infedele, d’un cane, come un cristiano od un ebreo, gli è tanto molesta, che per liberarsene, l’esaudisce ipso facto. Le sole faccie amiche che incontrassimo erano i ragazzi ebrei, che giravano a drappelli, a cavallo agli asini, di collina in collina, e ci gettavano un allegro: Buenos dias, caballeros! passandoci accanto di galoppo. Malgrado però la vita varia e nuova che menavamo a Tangeri, s’era tutti impazienti di partire, per poter essere di ritorno nel mese di Giugno, prima dei grandi calori. L’Incaricato d’affari aveva mandato un corriere a Fez ad annunziare che l’ambasciata era pronta; ma dovevano passare almeno dieci giorni prima che fosse di ritorno. Notizie private dicevano che la scorta era in viaggio; altre che non era ancora partita; eran tutte voci incerte e contraddittorie, come se quella Fez sospirata non fosse a duecento venti chilometri, ma a duemila miglia dalla costa. E questo, da un lato, ci piaceva, perchè quella passeggiata di quindici giorni prendeva così, nella nostra immaginazione, l’apparenza d’un lungo viaggio, e Fez l’attrattiva d’una città misteriosa. Al quale effetto servivano pure le strane cose che ci dicevano di quella città, del suo popolo e dei pericoli del viaggio, coloro che v’erano stati con altre ambasciate. Ci dicevano che erano stati circondati da migliaia di cavalieri, i quali li salutavano con una tempesta di fucilate a bruciapelo, a rischio d’accecarli; che s’erano sentiti fischiar le palle all’orecchio; che a noi italiani assai più probabilmente sarebbe toccata nel capo, per sbaglio, qualche oncia di piombo, diretta alla croce bianca della bandiera, la quale parrebbe agli arabi un insulto a Maometto. Ci parlavano di scorpioni, di serpenti, di tarantole, di nuvoli di cavallette, di ragni e di rospi enormi che avremmo trovati per la strada e sotto le tende. Ci descrivevano con foschi colori l’entrata delle ambasciate in Fez, in mezzo a un turbinio di cavalli, a un’immensa folla ostile, per strade coperte, oscure, ingombre di rovine e di carcasse d’animali. Ci preannunziavano un monte di malanni durante il soggiorno a Fez: languidezze mortali, dissenterie furiose, reumatismi, zanzare mostruosamente feroci, appetto alle quali erano una vera dolcezza quelle dei nostri paesi. E infine la nostalgia; al qual proposito si parlava d’un giovane pittore di Bruxelles, andato a Fez coll’ambasciata belga, il quale in capo a una settimana era stato preso da una così disperata tristezza, che l’ambasciatore aveva dovuto rimandarlo a Tangeri a marcie forzate, per non vederselo morire sotto gli occhi. Ed era vero. Ma queste notizie non facevano che accrescere la nostra impazienza. Ed io mi ricordavo ridendo d’una certa scappata ironica che m’aveva fatto mia madre, dopo aver tentato inutilmente di distogliermi dal viaggio al Marocco collo spauracchio delle bestie feroci:—Oh poi, in fin dei conti, hai ragione: che importa essere divorati da una pantera? Purchè i giornali lo dicano! Dopo tutto ciò, è facile immaginare che salto si sia fatto sulle seggiole il giorno che il signor Salomone Aflalo, secondo dracomanno della Legazione, si affacciò alla porta della sala da pranzo, e disse con voce sonora:—È arrivata la scorta da Fez. Colla scorta erano arrivati i cavalli, i muli, i cammelli, i palafrenieri, le tende, l’itinerario fissato dal Sultano e l’annunzio che si poteva partire. Bisognava però aspettare ancora alcuni giorni per lasciare un po’ di riposo agli uomini e alle bestie. Le bestie erano state ricoverate alla Casba. Il giorno dopo le andammo a vedere. Erano quarantacinque cavalli, compresi quelli della scorta; una ventina di mule da sella e più di cinquanta mule da carico, alle quali se ne aggiunsero poi molte altre noleggiate a Tangeri; i cavalli piccoli e di forme svelte, come tutti i cavalli marocchini, e le mule robuste; le selle e i basti coperti di panno rosso; le staffe formate da una larga lastra di ferro ripiegata ai due lati, in maniera da sostenere ed abbracciare tutto il piede e servir insieme di sprone e di difesa. Queste povere bestie erano quasi tutte accovacciate, sfinite più che dalle fatiche del viaggio, dall’insufficienza del nutrimento, una parte del quale, forse, era stata secondo l’uso trasformata in metallo dai conducenti. V’eran là alcuni soldati della scorta. Si avvicinarono e cominciarono a parlare, ingegnandosi di farci capire coi gesti che il viaggio era stato faticoso, che avevano patito un gran caldo e una gran sete, ma che grazie ad Allà erano arrivati sani e salvi. Ve n’erano dei neri

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