Marocco di Edmondo De Amicis pagina 65

Testo di pubblico dominio

questo, quando gli era tagliata la mano, fingeva di tuffar il moncherino nel catrame; un altro raccoglieva la mano recisa e la buttava in pasto ai cani; e tutti gli spettatori ridevano. Le faccie patibolari che avevan la maggior parte di quei soldatuccoli, non si possono descrivere. Ve n’era di tutte le sfumature dal nero d’ebano fino al giallo d’arancio, e non uno, neppure fra i più piccoli, che conservasse l’espressione della ingenuità infantile: avevan tutti qualchecosa di duro, di sfrontato, di beffardo, di cinico, che metteva pietà, piuttosto che sdegno. E non c’è bisogno di grande perspicacia per capire che non potrebb’essere altrimenti. Degli uomini, la maggior parte sonnecchiavano distesi in terra; altri ballavano alla negra in mezzo a un circolo di spettatori, facendo ogni sorta di smorfie e di lazzi; altri tiravano di scherma colle sciabole, nello stesso modo che i tiratori di Tangeri, saltellando con atteggiamenti da danzatori di corda. Gli ufficiali, tra cui molti rinnegati, che si riconoscevano al viso, alla pipa, e a un non so che di ricercato nel vestimento, passeggiavano in disparte, e quando gl’incontravo, sfuggivano i miei sguardi. Di là dal ponte, in un luogo appartato, c’era una ventina d’uomini ravvolti in cappe bianche, distesi in terra gli uni accanto agli altri, immobili come statue. Mi avvicinai: vidi che avevano le gambe e le braccia strette da grossissime catene. Erano condannati per delitti comuni che l’esercito si trascina sempre con sè, per esporli alla berlina. Al mio avvicinarsi, tutti si voltarono e mi fissarono in viso uno sguardo che mi fece tornare indietro. Uscii di mezzo ai soldati e m’andai a riparare all’ombra d’una palma, sopra un rialto di terreno, di dove si dominava tutto lo spianato. Ero là da pochi minuti, quando vidi un ufficiale staccarsi da un crocchio, e venir verso di me lentamente, guardando qua e là e canterellando, come per non farsi scorgere. Era un omo piccolo, tarchiato, vestito presso a poco alla zuava, col fez, senz’armi. Poteva avere una quarantina d’anni. Quando lo vidi da vicino, provai un senso di ribrezzo. Non ho mai visto nella gabbia di nessuna corte d’Assisie una faccia più perfida di quella. Avrei giurato che aveva sulla coscienza almeno dieci omicidii, accompagnati da insulti al cadavere. Si fermò a due passi da me, mi fissò con due occhi vitrei e disse freddamente: —Bonjour, monsieur. Gli domandai s’era francese. —Sì,—rispose.—Son venuto da Algeri. Son qui da sette anni. Son capitano nell’esercito del Marocco. Non potendo fargli i miei complimenti, non risposi. —C’est comme ça,—continuò con un fare spigliato.—Sono andato via da Algeri perchè non mi ci potevo più vedere. J’etais obligé de vivre dans un cercle trop étroit (voleva forse dire il capestro). La vita all’europea non si confaceva alla mia indole. Sentivo bisogno di cangiar paese. —Ed ora siete contento? domandai. —Contentissimo, rispose con affettazione.—Il paese è bello, Mulei el Hassen è il migliore dei Sultani, il popolo è buono, son capitano, ho una botteguccia, esercito una piccola industria, vado alla caccia, vado alla pesca, faccio escursioni sulle montagne, godo della più grande libertà. Non ritornerei in Europa, vedete, per tutto l’oro del mondo. —Non desiderate nemmeno di rivedere il vostro paese? Avete dimenticato affatto anche la Francia? —M’importa assai della Francia!—rispose.—Per me non esiste più Francia. La mia patria è il Marocco. E diede una scrollata di spalle. Quel cinismo mi rivoltò; non ci potevo quasi credere; mi venne la curiosità di scrutarlo più addentro. —Da quando avete lasciato l’Algeria,—gli domandai,—non avete più avuto notizia degli avvenimenti d’Europa? —Pas un mot,—rispose.—Qui non si sa nulla di nulla, ed io sono contentissimo di non saper nulla. —Non sapete dunque che c’è stata una gran guerra tra la Francia e la Prussia. Si scosse. —Qui a vaincu?—domandò con una certa vivacità, fissandomi negli occhi. —La Prussia,—risposi. Fece un atto di sorpresa. Gli raccontai in poche parole i grandi disastri della Francia, l’invasione, la presa di Parigi, la perdita delle due provincie. Stette a sentire colla testa bassa e le soppracciglia aggrottate; poi si riscosse e disse con un certo sforzo:—C’est égal... je n’ai plus de patrie... ça ne me regarde pas... E riabbassò la testa. Io lo osservavo, se n’accorse. —Adieu, monsieur,—disse improvvisamente, con voce alterata, e se n’andò a passi lesti. —Tutto non è dunque morto ancora!—pensai, e me ne sentii rallegrato. Intanto gli artiglieri avevan cessato di tirare al bersaglio, il Sultano s’era seduto sotto un padiglione bianco ai piedi d’una torre, e i soldati cominciavano a sfilargli davanti, un per uno, senz’armi, alla distanza di circa venti passi l’un dall’altro. Non essendoci nè accanto al Sultano, nè dirimpetto al padiglione alcun ufficiale che leggesse i nomi, come si fa da noi, per accertare l’esistenza di tutti i soldati segnati nei ruoli (e si dice che nell’esercito marocchino non esiston ruoli), non capii che scopo potesse avere quella rassegna, fuor che di ricreare l’Imperatore; e fui tentato di riderne. Ma un secondo pensiero, il pensiero di ciò che v’era di primitivo e di poetico in quel monarca affricano, sommo sacerdote e principe assoluto, giovane, semplice, gentile, che stando tre ore solo all’ombra d’una tenda, si faceva tre volte la settimana passare dinanzi ad uno ad uno i suoi soldati, e ascoltava le preghiere e i lamenti dei suoi sudditi sventurati, m’ispirò invece un sentimento di profondo rispetto. E poichè era quella l’ultima volta che lo vedevo:—Addio, gli dissi andandomene, con un vivo slancio di simpatia;—addio, bello e nobile principe!—e quando la sua graziosa figura bianca scomparve per sempre ai miei occhi, sentii un moto dentro, come se in quel momento stesso mi si stampasse per sempre nel cuore. * * * Nove giugno: ultimo del soggiorno dell’Ambasciata italiana in Fez. Tutte le domande dell’Ambasciatore sono state esaudite, accomodati gli affari del Ducali e dello Scellal, fatte le visite di congedo, subíto l’ultimo pranzo di Sid-Mussa, ricevuti i regali d’uso del Sultano: un bel cavallo nero, con una enorme sella di velluto verde, gallonata d’oro, all’Ambasciatore; sciabole dorate e damascate ai membri ufficiali dell’Ambasciata; una mula al secondo dracomanno. Le tende e le casse son partite stamattina, le stanze son vuote, le mule son pronte, la scorta ci attende alla porta della Nicchia del burro, i miei compagni passeggiano nel cortile aspettando l’ora della partenza, ed io seduto per l’ultima volta sul mio letto imperiale, noto, col quaderno sulle ginocchia, le mie ultime impressioni di Fez. Quali sono? Che cosa ha finito per lasciarmi, in fondo all’anima, lo spettacolo di questa città, di questa gente, di questo stato di cose? Se appena penetro col pensiero sotto l’impressione gradevole della meraviglia e della curiosità soddisfatta, trovo una mescolanza di sentimenti diversi, che mi lasciano l’animo incerto. È un sentimento di pietà che mi desta la decadenza, l’avvilimento, l’agonia di questo popolo guerriero e cavalleresco, che lasciò una così luminosa traccia nella storia delle scienze e delle arti, ed ora non serba nemmen più la coscienza della sua gloria passata. È un sentimento d’ammirazione per quello che rimane in lui di forte e di bello, per la maestà virile e graziosa del suo aspetto, del suo vestire, dei suoi modi, delle sue cerimonie; per tutto ciò che presenta ancora d’anticamente semplice la sua vita triste e silenziosa. È un sentimento di sconforto al vedere tanta barbarie a così poca distanza dalla civiltà, e come in questa civiltà sia così sproporzionata la forza di innalzarsi a quella di espandersi, se in tanti secoli, pure crescendo sempre nella sua

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Argomenti: tre ore,    due passi,    venti passi,    padiglione bianco,    grande perspicacia

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