Marocco di Edmondo De Amicis pagina 47

Testo di pubblico dominio

alto quasi tre metri, rivestito, sopra, di seta color amaranto, sotto di seta azzurra, ricamata d’oro, con una grossa palla dorata sulla cima,—aggiungeva gentilezza e dignità alla sua figura. L’atteggiamento grazioso, lo sguardo così tra pensieroso e ridente, la sua voce sommessa e monotona come il mormorìo d’un ruscello, tutta insomma la sua persona e la sua maniera aveva un non so che d’ingenuo e di femmineo, e nello stesso tempo di solenne, che ispirava una simpatia irresistibile ed un rispetto profondo. Non mostrava d’aver più di trenta due o trentatrè anni. —Sono lieto,—disse,—che il Re d’Italia abbia mandato un Ambasciatore per stringere maggiormente i legami della nostra antica amicizia. La casa di Savoia non fece mai la guerra al Marocco. Io amo la casa di Savoia e ho seguito con gioia e con ammirazione i grandi avvenimenti che si compirono sotto i suoi aspicii in Italia. Ai tempi di Roma antica, l’Italia era il paese più potente del mondo. Poi si divise in sette stati. I miei antenati furono amici di tutti e sette questi stati. Ed io, ora che tutti e sette si sono riuniti in un solo, ho concentrata in quest’uno tutta l’amicizia che i miei antenati nutrivano per gli altri. Disse queste parole lentamente, a pause, come se le avesse studiate prima, e facesse di tratto in tratto uno sforzo per rammentarsele. Fra le altre cose, l’Ambasciatore gli disse che il Re d’Italia gli aveva mandato il suo ritratto. —È un dono prezioso,—rispose;—e io lo farò porre nella sala dove dormo, in faccia a uno specchio, che è il primo oggetto su cui cadono i miei occhi allo svegliarmi; e così ogni mattina, appena desto, vedrò riflessa l’immagine del Re d’Italia, e penserò a lui. E poco dopo soggiunse: —Sono contento, e desidero che restiate lungo tempo in Fez e spero che ne serberete una buona memoria quando sarete tornati nella vostra bella patria. Dicendo queste cose, teneva quasi sempre gli occhi fissi sulla testa del cavallo. A momenti, pareva che volesse sorridere; ma subito corrugava le soppracciglia come per richiamare sul suo volto la gravità imperiale. Era curioso,—si capiva,—di vedere che razza di gente fossimo noi sette schierati a dieci passi dal suo cavallo; ma non volendo guardarci direttamente, girava gli occhi a poco a poco, e poi con uno sguardo rapidissimo ci abbracciava tutti e sette insieme, e in quel momento nel suo occhio brillava una certa espressione indefinibile d’ilarità infantile, che faceva un graziosissimo contrasto colla maestà di tutta la sua persona. Il folto corteo che gli stava dietro e ai lati, pareva pietrificato. Tutti gli occhi eran fissi in lui, non si sentiva un respiro, non si vedevano che volti immobili in un atteggiamento di venerazione profonda. Due mori, con mano tremante, gli cacciavano le mosche dai piedi; un altro, di tratto in tratto, gli passava la mano sul lembo della cappa come per purificarla dal contatto dell’aria; un quarto, in atto di sacro rispetto, accarezzava la groppa del cavallo; quello che reggeva il parasole, stava cogli occhi bassi, immobile come una statua, quasi fosse confuso e sgomento dalla solennità del suo ufficio. Tutto, intorno a lui, esprimeva la sua enorme potenza, l’immensa distanza che lo separava da tutti, una sottomissione sconfinata, una devozione fanatica, una svisceratezza d’amore pauroso e selvaggio, che sembrava domandare d’essere provato col sangue. Non pareva un monarca; ma un Dio. L’Ambasciatore gli porse le sue credenziali e gli presentò il Comandante, il capitano e il vice-console, i quali gli s’avvicinarono l’un dopo l’altro e stettero qualche momento dinanzi a lui nell’atteggiamento del saluto. Guardò con particolare attenzione le decorazioni del Comandante. —Il medico,—disse poi l’Ambasciatore accennando noi quattro,—e tre scienziati. I miei occhi incontrarono gli occhi del Dio, e tutti i periodi, già concepiti, di questa descrizione, mi si scompigliarono nella mente. Il Sultano domandò con curiosità chi fosse il medico. —Quello a destra,—disse l’interprete. Lo guardò attentamente. Poi, accompagnando le parole con un atto gentile della mano destra, disse:—La pace sia con voi! La pace sia con voi! La pace sia con voi! E voltò il cavallo. La banda suonò, le trombe squillarono, i cortigiani curvarono la testa, le guardie, i soldati e i servi misero un ginocchio in terra, e scoppiò un’altra volta da tutti i petti un grido lungo e sonoro:—Dio protegga il nostro Signore! Scomparso il Sultano, si confusero le due schiere dei grandi personaggi, e vennero verso di noi Sid-Mussa, i suoi figliuoli, i suoi ufficiali, il ministro della guerra, il ministro delle finanze, il gran sceriffo Bacali, il grande cerimoniere, i più grossi pezzi della corte, sorridendo, vociando, agitando le braccia in segno di festa. Poco dopo, avendo Sid-Mussa invitato l’Ambasciatore a riposarsi in un giardino del Sultano, si montò tutti a cavallo, si attraversò la piazza, s’infilò la stradicciuola misteriosa e s’entrò nell’augusto recinto del quartiere imperiale. Vicoli fiancheggiati da alti muri, piazzette, cortili, case in rovina, case in costruzione, porte ad arco, corridoi, giardinetti, piccole moschee, un labirinto da perderci il capo, e per tutto operai affaccendati, schiere di servi, sentinelle armate, e qualche viso di schiava dietro le inferriate delle finestre e agli spiragli delle porte: non si vide altro. Non un edifizio di bella apparenza, nè altra cosa, fuor delle guardie, che indicasse l’abitazione d’un Monarca. Entrammo in un giardino vasto ed incolto, tutto viali ombrosi incrociati ad angolo retto e chiuso da mura altissime come il giardino d’un convento, e di là, dopo un breve riposo, ritornammo a casa,—spargendo per la strada,—il medico, i pittori ed io,—l’ilarità colla giubba e il terrore coi gibus. Per tutto quel giorno non si parlò d’altro che del Sultano. Aveva innamorato tutti. L’Ussi si provò cento volte a schizzarne la figura e buttò via la matita disperato. Lo proclamammo tutti il più bello e il più amabile di tutti i Monarchi maomettani; e perchè la proclamazione fosse veramente nazionale, ci piacque di sentire il parere anche del cuoco e dei due marinai. Il cuoco, al quale tutti gli spettacoli veduti da Tangeri a Fez non avevano strappato mai altro che un sorriso di profonda commiserazione, si mostrò generoso coll’Imperatore. —A l’è un bel omm,—disse,—a i é nen a diie (è un bell’uomo, non c’è che dire); ma bisognerebbe che andasse a viaggiare (parole testuali) dove c’è l’istruzione. Questo dove, naturalmente, era Torino. Luigi, il calafato, benchè napoletano, fu più laconico. Domandato che cosa avesse osservato nell’Imperatore, stette un po’ sopra pensiero e rispose sorridendo: —Aggio osservato ch’a stu paese manc’ u Re porta i’ calzette! Il più comico fu il Ranni.—Che cosa t’è parso del Sultano?—gli domandò il Comandante. —M’è parso,—rispose francamente e colla maggior serietà,—che avesse paura. —Paura!—esclamò il Comandante.—Di chi? —Di noi. Non ha visto com’è diventato smorto e come parlava, che quasi gli mancava il fiato? —Ma tu sei matto! E vuoi che lui, in mezzo a tutte le sue guardie e a tutto il suo esercito, avesse paura di noi altri? —Così m’è parso,—rispose il Ranni imperturbabile. Il Comandante lo guardò fisso e poi si pigliò la testa fra le mani in atto di profondo scoraggiamento. Quella stessa sera entrarono nel palazzo, condotti da Selam, due mori, i quali avendo inteso raccontare meraviglie dei nostri gibus, desideravano di vederli. Andai a prendere il mio e lo apersi sotto i loro occhi. Vi guardarono dentro tutti e due con grande curiosità e parvero molto meravigliati. Credevano probabilmente di trovarci chi sa che complicato meccanismo di ruote e di cerniere, e non vedendoci nulla, si confermavano forse nella superstizione

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Argomenti: lungo tempo,    dieci passi,    grande curiosità,    simpatia irresistibile,    particolare attenzione

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