Marocco di Edmondo De Amicis pagina 5

Testo di pubblico dominio

sconosciuto in ogni altro paese. È una bellezza opulenta e splendida, di grandi occhi neri, di fronti nivee, di bocche porporine, di contorni statuarii, una bellezza da palco scenico, che abbarbaglia da lontano, e strappa piuttosto un applauso che un sospiro, e piace di raffigurarsela in mezzo alle fiaccole e alle tazze inghirlandate d’un banchetto antico, come nella sua cornice naturale. Le ebree di Tangeri non vestono in pubblico il ricchissimo costume tradizionale; son vestite presso a poco all’europea, ma di colori ciarlatanissimamente vistosi, blù solferino e rosso di carminio, giallo di zolfo e verde d’erba montanina, scialli e gonnelle che feriscon l’occhio da una collina all’altra; in modo che paiono donne ravvolte dentro a bandiere di tutti gli Stati del mondo. Il sabato, passando per le strade abitate dagli ebrei, si vedono da ogni parte quei colori, quei visi floridi, quegli occhioni dolci e ridenti, quelle treccie lunghe e nerissime; nidiate di ragazze chiassose e curiose; un rigoglio di gioventù e di bellezza sensuale, che contrasta vivamente colla solitudine austera delle altre vie. * * * Mi fanno ridere i ragazzi arabi. Di quei piccini, che possono appena camminare, anch’essi insaccati nella cappa bianca, non si vede altro che il cappuccio, e paiono spegnitoi ambulanti. La maggior parte hanno la testa rasa nuda come la mano, eccetto una trecciolina sul cocuzzolo lunga un par di palmi, che si direbbe lasciata apposta per poterli appendere ai chiodi come le marionette. Alcuni l’hanno invece dietro l’orecchio o sopra la tempia, con qualche ciocca di capelli tagliati in forma di quadrato o di triangolo, che è il distintivo degli ultimi nati nelle famiglie. I più hanno un bel visetto pallido, un corpicino ritto e sciolto e un’espressione d’intelligenza precoce. Nelle parti più frequentate della città, non badano agli Europei; nelle strade appartate, si contentano di guardarli attentamente, coll’aria di dire:—Non mi piaci.—Qualcuno avrebbe voglia di dire un’impertinenza: glie la vedete scintillare negli occhi e guizzare sulle labbra; ma di rado se la lasciano sfuggire dalla bocca, non tanto per rispetto del Nazareno, quanto per paura del padre, che sente l’odore delle Legazioni. In ogni caso, però, alla vista d’un soldo si quetano. Ma bisogna guardarsi da tirare il codino, perchè ieri, passando, diedi una tiratina a un fantoccio alto un palmo, e lui mi si voltò contro inviperito, borbottando alcune parole, che significavano, mi disse l’interprete:—Dio faccia arrostire tuo nonno, maledetto Cristiano! * * * Ho finalmente veduto due santi, che vuol dire idioti o pazzi, poichè qui, come in tutta l’Affrica settentrionale, è venerato come santo colui al quale Dio, in segno di predilezione, ha tolto la ragione per ritenerla prigioniera nel cielo. Il primo era davanti a una bottega, sulla strada principale. Lo vidi da lontano e mi fermai. Sapevo che ai santi tutto è lecito, e non volevo espormi a ricevere una legnata tra capo e collo come il signor Sourdeau, console di Francia, o uno sputo nel viso come il signor Drummond Hay. Ma l’interprete che m’accompagnava mi spinse innanzi dicendomi:—Vada franco; i santi di Tangeri han messo testa a partito dopo che le Legazioni fecero dare degli esempi sonori, e in ogni caso gli arabi stessi le servirebbero di scudo, per impedire al santo di compromettersi.—Allora passai davanti a quello spauracchio, osservandolo attentamente. Era un vecchio, tutto faccia e tutto pancia, coi capelli bianchi lunghissimi, una barbaccia che gli scendeva fin sul petto, una corona di carta intorno alla fronte, un mantello rosso sbrandellato sulle spalle e in mano una piccola lancia colla punta dorata. Stava seduto in terra, colle gambe incrociate e le spalle al muro, guardando con aria annoiata la gente che passava. Mi soffermai: mi guardò. Ci siamo—pensai—ora lavora la lancia.—Ma la lancia ebbe giudizio, e fui anzi meravigliato dell’espressione tranquilla e intelligente di quegli occhi e d’un risolino astuto che vi brillava dentro, come se volesse dire:—Tu aspetti ch’io ti dia addosso, eh? A esser minchioni! Era certamente uno di quegli impostori che, sani di mente, si fingono pazzi per godere i privilegi della santità. Gli gettai una moneta ch’egli raccolse con sbadataggine affettata, e tornai verso la piazzetta dove, appena arrivato, ne incontrai un altro. Questo era santo davvero. Era un mulatto, quasi tutto nudo, appena umano nel viso, tutt’una crosta immonda dalla testa ai piedi, e secco a segno che lasciava veder lo scheletro osso per osso, e pareva un prodigio che vivesse. Girava lentamente per la piazza sorreggendo a fatica una gran bandiera bianca, che i ragazzi correvano a baciare, e un altro pezzente accompagnato da due rabbiosi suonatori di piffero e di tamburo, chiedeva la limosina per lui di bottega in bottega. Gli passai accanto, mi mostrò il bianco dell’occhio; lo fissai, si fermò; mi parve che apparecchiasse qualcosa in bocca, mi scansai lesto lesto e non mi volsi più indietro.—Ha fatto bene, mi disse l’interprete, a scansarsi, perchè, se avesse sputato, lei non avrebbe avuto dagli altri arabi altra consolazione che di sentirsi dire: Non asciugare, fortunato Cristiano! Non cancellare il segno della benevolenza di Dio! Te benedetto, che il santo t’ha sputato sul viso! * * * Sta notte ho inteso di nuovo il suono di chitarra e la voce della prima sera, e ho sentito per la prima volta la musica araba. In quella perpetua ripetizione dello stesso motivo, quasi sempre malinconico, c’è qualcosa che a poco a poco va all’anima. È una specie di lamentazione monotona che finisce per soggiogare il pensiero come il mormorio d’una fontana, il canto dei grilli e il battere dei martelli sulle incudini che si ode la sera passando vicino a un villaggio. Mi sento forzato a raccogliermi e a meditare come per afferrare il significato riposto di quella eterna parola che mi risuona all’orecchio. È una musica barbara, ingenua e piena di dolcezza, che mi fa risalire col pensiero fino alle età primitive, mi ravviva le impressioni infantili delle prime letture della Bibbia, mi richiama alla mente dei sogni dimenticati, mi desta mille curiosità di paesi e di popoli favolosi, mi trasporta a grandi lontananze, in boschi d’alberi sconosciuti, in mezzo a sacerdoti secolari curvi intorno a idoli d’oro; o in pianure sconfinate, in solitudini solenni, dietro le carovane stanche che interrogano collo sguardo l’immenso orizzonte infocato e ripiegano la testa raccomandandosi a Dio. Nulla di quello che mi circonda mi fa sentire un così mesto desiderio di riveder mia madre, come quelle poche note d’una voce fioca e d’una chitarra scordata. * * * Una stranissima cosa son le botteghe moresche. Sono tutte una specie d’alcova, alta circa un metro da terra, con una sola apertura verso la strada, alla quale il compratore s’affaccia, come ad una finestra, appoggiandosi al muro. Il bottegaio sta dentro, seduto all’orientale, con una parte delle merci ammontata dinanzi, e una parte dietro, disposta in piccoli scaffali. È curioso l’effetto che fan quei vecchi mori barbuti, immobili come automi, in fondo a quei bugigattoli oscuri. Pare che non la merce, ma essi medesimi siano esposti in mostra, come i fenomeni viventi nelle baracche delle fiere. Son vivi? son di legno? dov’è l’ordigno che li fa comparire e sparire? E così immobili e silenziosi passano ore ed ore, e giornate intere, facendo scorrere fra le dita le pallottoline d’un rosario, e borbottando preghiere. Non si può immaginare l’aria di solitudine, di noia, di tristezza che spira là dentro. Si direbbe che ognuna di quelle botteghe è una tomba, nella quale il padrone, già separato dal mondo, aspetta la morte. * * * Ho visto due bambini condotti in trionfo dopo la funzione solenne della circoncisione. Uno poteva avere sei anni, l’altro cinque. Erano tutti e due a

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Argomenti: fantoccio alto,    mantello rosso,    risolino astuto,    mille curiosità,    mesto desiderio

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