Marocco di Edmondo De Amicis pagina 59

Testo di pubblico dominio

cospetto della ninfa, abbia fatto una dichiarazione d’amore od abbia tentato di sopprimere il preambolo, se la ninfa gli abbia prestato orecchio pietoso o sia fuggita strillando, non si sa, poichè tutto, in questo paese, è mistero. Si sa però che tutt’a un tratto sbucarono di dietro a un cespuglio quattro mori armati di pugnale, due dei quali gli si slanciarono contro da una parte e due dall’altra; e che il malcapitato seduttore o non sarebbe più uscito del giardino, o ne sarebbe uscito con qualche occhiello nelle reni, se non fosse comparso improvvisamente il caid Hamed-Ben Kasen Buhammei, il quale arrestò con un gesto imperioso i quattro cerberi, e diede modo al fuggitivo di riportare la pelle intatta al palazzo. La notizia dell’avvenimento si sparse, ci fu un sottosopra, il colpevole ricevette una solenne ammonizione in presenza di tutti e il Comandante, sempre spiritoso, gli fece per giunta un sermoncino che gli produsse un’impressione profonda.—Che le donne degli altri, e particolarmente le donne dei mussulmani, bisogna lasciarle stare; che quando si è con un’ambasciata europea nel Marocco, bisogna far conto di non esser più un uomo; che nei paesi maomettani queste quistioni di donne finiscono facilmente in quistioni politiche; e che sarebbe una bella responsabilità quella d’un giovane onesto il quale, per non aver saputo resistere a un impulso inconsiderato... del cuore, trascinasse il suo paese in una guerra... di cui non si potrebbero prevedere le conseguenze.—A questo discorso, il povero giovane, che già vedeva la flotta italiana con centomila soldati salpare verso il Marocco per cagion sua, si mostrò atterrito del suo fallo a tal segno, che non parve più necessario d’infliggergli altro castigo. * * * Vorrei saper bene che concetto hanno costoro della propria potenza militare e del proprio valore guerresco rispetto alla potenza e al valore dei popoli europei. Ma non oso interrogarli direttamente su questo soggetto perchè sono ombrosissimi e temo che le mie domande possano parere un’ironia o una spacconata. Son riuscito nondimeno, tastandoli con mano leggera, e senza farmi scorgere, a raccapezzare qualche cosa. Sulla superiorità della nostra potenza militare non ci hanno dubbio; poichè se qualche dubbio rimaneva loro trent’anni sono, quando non avevano ancora ricevuto dagli europei alcuna veramente grave batosta, le guerre della Francia e della Spagna, e principalmente le due battaglie famose d’Isly e di Tetuan, dissiparono quei dubbi per sempre. Ma riguardo al valore, mi pare che si credano ancora superiori di molto agli europei; le vittorie dei quali attribuiscono all’artiglieria, all’ordine, alla furberia (chè per loro sono furberie la strategia e la tattica) e non al valore. E le vittorie conseguite con quei mezzi, pare che non le considerino nobilmente conseguite. Il volgo, poi, aggiunge a quei mezzi l’alleanza coi cattivi spiriti, senza la quale nè i cannoni nè le furberie sarebbero bastati a sgominare gli eserciti mussulmani. Certo è che agli Arabi puri e ai Berberi, che sono la maggioranza guerriera del Marocco, non si può negare il valore, e nemmeno restringersi a riconoscere in loro quel valore comune e indeterminato che in Europa si considera, con cavalleresca reciprocanza, proprietà di tutti gli eserciti. Poichè tenuto pur conto della natura del terreno e degli aiuti segreti dell’Inghilterra, l’esercito marocchino, scompigliato, mal condotto, male armato, male approvvigionato, non avrebbe potuto tener fronte, come fece, per quasi un anno, con una tenacia inaspettata in Europa, all’esercito spagnuolo, disciplinato, ordinato e fornito di tutti i nuovi mezzi d’offesa, senza supplire con un grande valore alla potenza militare che gli mancava. Si potrà negare il nome proprio di valore al fanatismo che slancia un uomo contro dieci a cercare una morte che gli aprirà le porte del paradiso; al furore selvaggio che induce un soldato a spaccarsi il cranio contro una rupe piuttosto che cader nelle mani dei nemici; alla rabbia forsennata d’un ferito, che si strappa le bende e si squarcia le piaghe per liberarsi colla vita dalla prigionia; al disprezzo del dolore, alla cieca audacia, all’ostinazione brutale di chi si fa uccidere senza scopo; ma bisognerà ammettere almeno che questi sono elementi di valore, ed è incontestabile che questa gente ne diede molti e tremendi saggi alla Spagna. Dopo due mesi di guerra, l’esercito spagnuolo non aveva presi che due prigionieri, un arabo della provincia d’Oran e un pazzo che s’era presentato agli avamposti; e nella sanguinosa battaglia di Castillejos cinque marocchini soli, e tutti e cinque feriti, caddero nelle mani dei vincitori. La loro tattica tradizionale è di avanzarsi in massa contro il nemico, distendersi rapidamente, correre fino a mezzo tiro, sparare e ritirarsi precipitosamente per ricaricare le armi. Nelle grandi battaglie si dispongono a mezza luna, l’artiglieria e la fanteria al centro, e alle ali la cavalleria, che cerca d’avvolgere il nemico e cacciarlo fra due fuochi. Il capo supremo dà un ordine generale, ma ogni capo inferiore ritorna all’assalto o si ritira quando gli sembra opportuno, e l’esercito sfugge facilmente al comando principale. Cavalieri infaticabili, destri tiratori, tenaci dietro un riparo, facili a sgominarsi in pianura aperta, strisciano come serpenti, s’arrampicano come scoiattoli, corrono come caprioli, passano rapidamente dall’assalto temerario alla fuga precipitosa, e da un esaltazione di valore che pare pazzia furiosa a uno sgomento che non ha nome. Ci sono ancora nel Marocco dei mori impazziti di terrore alla battaglia d’Isly; e si sa che alle prime cannonate del maresciallo Bugeaud, il Sultano Abd-er-Rahman, gridò:—Il mio cavallo! Il mio cavallo!—e inforcata la sella, si diede a una fuga disperata, lasciando sul campo i suoi musici, i suoi negromanti, i suoi cani da caccia, lo stendardo sacro, il parasole ed il tè, che i soldati francesi trovarono ancora bollente. * * * Incontro tanti neri per le strade di Fez, che alle volte mi par di trovarmi in una città del Sudan e sento vagamente fra me e l’Europa l’immensità del deserto di Sahara. Dal Sudan, infatti, vengono la maggior parte, poco meno di tremila all’anno, molti dei quali si dice che muoiono in breve tempo di nostalgia. Sono portati per lo più all’età d’otto o dieci anni. I mercanti, prima di esporli in vendita, li ingrassano a pallottole di cuscussù, cercano di guarirli dalla nostalgia colla musica e insegnano loro qualche parola araba; il che ne aumenta il prezzo, che è ordinariamente trenta lire per un ragazzo, sessanta per una bimba, circa a quattrocento per una giovane di diciassette o diciott’anni, bella, che sappia parlare e che non abbia ancora partorito; e cinquanta o sessanta per un vecchio. L’Imperatore ritiene il cinque per cento della materia importata, e ha il diritto della prima scelta. Gli altri sono venduti nei mercati di Fez, di Mogador e di Marocco, e partitamente, all’incanto, in tutte le altre città, dove i compratori, per tradizione, usano loro il pudico riguardo di non visitarne pubblicamente le parti coperte. Abbracciano tutti, senza difficoltà, la religione maomettana, conservando però molte delle loro stranissime superstizioni, e le feste bizzarre del proprio paese, consistenti in balli grotteschi che durano fino a tre giorni e tre notti consecutive, accompagnati da una musica diabolica, e non interrotti che per inghiottire con avidità bestiale ogni sorta di porcherie. Servono per lo più nelle case, son trattati con dolcezza, vengono in gran parte affrancati in ricompensa dei loro servigi, hanno la via aperta anche alle più alte cariche dello stato, e si palesano qui come per tutto: ora febbrilmente operosi, ora torpidamente pigri, lussuriosi come scimmie, astuti come volpi, feroci come tigri; ma contenti del loro stato, e per lo più fedeli e grati ai

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Argomenti: breve tempo,    gesto imperioso,    grande valore,    potenza militare,    orecchio pietoso

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