Marocco di Edmondo De Amicis pagina 40

Testo di pubblico dominio

comandanti dinanzi. Ci presentano, ognuno a modo suo, i loro fucili rugginosi, colle baionette scontorte. Chi tiene un piede innanzi, chi sta a gambe larghe, chi col mento sul petto, chi colla testa chinata sopra una spalla. Alcuni si son messi la giacchetta rossa sul capo per ripararsi dal sole. Di tratto in tratto v’è un tamburino, un trombetta, cinque o sei bandiere le une accanto alle altre, rosse, gialle, verdi, ranciate, tenute come si tengono le croci nelle processioni. Non si vede nessuna divisione di squadre o di compagnie. Paiono soldatini di cartone messi in fila da un ragazzo. Vi son dei neri, dei mulatti, dei bianchi, faccie d’un colore indefinibile; uomini di statura ciclopica accanto a bimbi che appena possono reggere il fucile; vecchi con una lunga barba bianca, curvi, che s’appoggiano col gomito ai vicini; figure selvaggie che fan l’effetto, con quell’uniforme, di scimmie vestite ed ammaestrate; tutti ci guardano cogli occhi attoniti e la bocca aperta e si stendono dinanzi a noi in due file a perdita d’occhio. Una seconda folla di cavalieri ci viene incontro, a sinistra. È il vecchio governatore Gilali Ben Amù, seguito da diciotto sotto-governatori e dal fiore dell’aristocrazia di Fez, tutti vestiti di bianco da capo a piedi, come uno stuolo di sacerdoti: visi austeri, barbe nere, caic di seta, bardature dorate. Salutano, ci girano intorno e s’uniscono alla scorta e alla Corte. Andiamo innanzi, sempre in mezzo a due schiere di soldati, dietro ai quali ondeggia una folla bianca e incappucciata che ci divora cogli occhi. Son sempre gli stessi soldati, per buona parte ragazzi, col fez, la giacchetta rossa e le gambe nude. Alcuni hanno i calzoncini turchini, altri bianchi, altri verdi; molti sono in maniche di camicia; chi tiene il fucile al piede, chi sulla spalla; chi sta avanti, chi sta indietro. Gli ufficiali son vestiti a capriccio, da zuavi, da turcos, da spahì, alla greca, all’albanese, alla turca, con divise gallonate e arabescate d’oro e d’argento, con sciabole a scimitarra, spade, pugnali ricurvi, pistoloni, daghe, stivali alla scudiera e stivaletti gialli senza tallone; alcuni color di porpora da capo a piedi, altri tutti bianchi, altri tutti verdi che paiono mascherati da diavoli. Di tratto in tratto si vede fra loro un viso europeo che ci guarda con un’espressione di simpatia e di tristezza. Si vedono fino a dieci bandiere schierate insieme. Al nostro passaggio, squillano le trombe. Qualche braccio di donna s’intromette fra le teste di due soldati e s’agita col pugno chiuso verso di noi in atto di minaccia. Le mura della città par che s’allontanino via via che andiamo innanzi, e le due schiere di soldati si allungano dinanzi a noi come due siepi sterminate di roseti vermigli. Un’altra folla di cavalieri, più pomposi dei precedenti, ci viene incontro. È il vecchio ministro della guerra. Sid-Abd-Allà ben-Hamed, nero, montato sopra un cavallo bianco bardato di color celeste; e con lui i governatori militari della provincia, il comandante del presidio di Fez, e un folto stato maggiore di generali coronati di turbanti bianchi come la neve e vestiti di caffettani di cento colori. Ci rimettiamo in via. Ormai è più di mezz’ora che camminiamo in mezzo ai soldati e qualcuno ne ha contati oltre a quattro mila. Da una parte è schierata la cavalleria; dall’altra un’accozzaglia che non ha più nome; uomini e ragazzi vestiti di cento uniformi diverse, o piuttosto di brandelli d’uniformi, metà armati e metà senz’armi, colla cappa, senza cappa, con un cencio intorno al capo, col capo scoperto, scamiciati; visi del deserto, del litorale dell’Oceano, delle montagne dell’Atlante, del Rif, della provincia di Sus; teste rapate e teste ornate di lunghe treccie; colossi e nani, ceffi di belve e faccie di morti—disotterrati, larve, fantocci, comparse teatrali, gente razzolata Dio sa dove per far numero e paura. E dietro costoro, su due grandi rialti di terreno che sorgono a destra e a sinistra della strada, due turbe innumerevoli di donne velate, che gridano e gesticolano in atto di meraviglia, di sdegno, d’allegrezza, sollevando i bambini sopra la testa. Ci avviciniamo alle mura, in direzione d’una porta monumentale, coronata di merli. Scoppia il suono d’una banda e nello stesso tempo tutte le trombe e tutti i tamburi dell’esercito prorompono in un fragore infernale. Allora si sciolgono gli ordini del ricevimento e tutti ci si affollano intorno, magistrati, generali, cortigiani, ministri, ufficiali, schiavi; la nostra scorta è scompigliata, i nostri servi dispersi e noi stessi separati gli uni dagli altri. È un torrente di turbanti e di cavalli, che ci avvolge e ci travolge con un impeto irresistibile; un barbaglio di colori, una fantasmagoria di faccie strane, un frastuono di voci stridule, una furia, una confusione di battaglia, uno spettacolo grandioso e selvaggio che innamora e sbalordisce. Passiamo per la gran porta, ci guardiamo intorno credendo di veder le case della città: siamo ancora in mezzo a mura e a torri merlate; a sinistra v’è una cuba, colla cupola verde, ombreggiata da due palme; gente intorno alla cuba, ai piedi delle mura, sulle mura, sulle torri, da ogni parte. Passiamo sotto un’altra porta, ed entriamo finalmente in una strada fiancheggiata da case. Non ricordo che molto confusamente quello che vidi in quel tragitto, tanto ero sbalordito dallo spettacolo dell’entrata e intento a salvarmi la vita, poichè si camminava sui pietroni in mezzo a una calca di cavalli, e guai a chi avesse fatto un capitombolo. Passammo, mi ricordo, per parecchie strade strette, deserte, fiancheggiate da case molto alte, salendo, scendendo, soffocati dal polverìo e assordati dallo scalpitìo dei cavalli; e dopo una buona mezz’ora di cammino, attraversato un labirinto di vicoli in salita dove ci toccò passare a uno a uno, scendemmo dinanzi a una piccola porta, in mezzo a due file di soldati scarlatti che ci presentarono le armi, ed entrammo in casa nostra. Fu una sensazione deliziosa. Era una casa principesca di puro stile moresco con un piccolo giardino ombreggiato da filari paralleli d’aranci e di limoni. Dal giardino s’entrava nel cortiletto interno per una porta bassissima, e un corridoio appena tanto largo da potervi passare una persona. Tutt’intorno al cortile s’alzavano dodici pilastri bianchi, congiunti da altrettanti archi a ferro di cavallo, che sostenevano all’altezza del primo piano una galleria arcata e munita d’una balaustrata di legno. Il pavimento del cortile, della galleria e delle stanze era tutto uno splendido musaico a quadrettini smaltati di vivi colori; gli archi arabescati e dipinti; la balaustrata lavorata a giorno con una delicatezza finissima; tutto l’edifizio disegnato con un’armonia e una grazia degna degli architetti dell’Alhambra. Nel mezzo del cortile v’era una fontana, e un’altra, a tre getti d’acqua, dentro a un vano del muro rivestito di musaico a stelle e a rosoni. Dal mezzo d’ogni arco pendeva una grande lanterna moresca. Un braccio dell’edifizio si stendeva lungo uno dei lati del giardino, e aveva una graziosissima facciata a tre archi, pure dipinti e arabescati, dinanzi alla quale zampillava una terza fontana. V’erano altri piccoli cortili e corridoi e stanzuccie e gl’innumerevoli recessi di tutte le case orientali. Qualche letto di ferro senza coperte e senza lenzuoli, qualche orologio a pendolo, uno specchio nel cortile, due seggiole e un tavolino per l’Ambasciatore, e una mezza dozzina di orciuoli e di catinelle, erano tutta la suppellettile del palazzo. Nelle stanze principali c’erano tappeti ricamati d’oro appesi alle pareti e materasse bianche distese sul pavimento. Non una seggiola, non una tavola, non un comodino. Si dovette far portare il mobilio dell’accampamento. In compenso per tutto fresco, per tutto gorgoglío d’acqua, un’ombra, una fragranza, un non so che di molle e di

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Argomenti: due file,    cavallo bianco,    vecchio governatore,    piccolo giardino,    vecchio ministro

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