Marocco di Edmondo De Amicis pagina 24

Testo di pubblico dominio

ciarlatano rinnegato, fuggito d’Algeria o dai presidii spagnoli. Quando l’Imperatore o un ministro o un ricco Moro s’ammala, manda a chiamare un medico europeo in una città della costa. Ma non mandano che quando son ridotti agli estremi, trascurano per anni ed anni le malattie, e il più delle volte il medico non arriva che per assistere alla morte. Nei medici europei hanno gran fede; la vista dei medicinali, delle preparazioni chimiche, degli strumenti chirurgici dà loro un concetto immenso del potere della scienza; se ne ripromettono prodigi; pigliano le prime medicine e seguono le prime prescrizioni colla docilità e l’allegrezza di gente sicura d’una guarigione immediata. Ma se la guarigione non è immediata, perdono ogni fede, interrompono la cura e ricorrono ai ciarlatani. Una cosa, sopra tutte, domandano vecchi e giovani, ricchi e poveri, ai medici europei, ed è ciò che l’imperatore Eliogabalo domandava ai suoi cuochi. E’ quando lo domandano? Quando quotidianamente non possono più varcare le soglie del paradiso di Maometto più di tante volte quanti sono i precetti fondamentali dell’Islam! A questo punto si tengon già decaduti! Onde ognuno può capire quanto sia generalmente precoce la decadenza vera, e a che abbominevoli pervertimenti siano trascinati i più dal furore delle passioni. La sera passò senz’avvenimenti notevoli, fuorchè la scoperta ch’io feci d’uno scorpionaccio nero sopra il cuscino del mio letto, nel momento che stavo per coricarmi. Fu però un terrore passeggiero, poichè avvicinandomi a poco a poco col lume, lessi sul dorso dell’animale l’iscrizione rassicurante:—Cesare Biseo fece addì 5 maggio 1875. La mattina all’alba partimmo alla volta della città d’Alkazar. Il tempo era scuro. I colori pomposi dei trecento soldati della scorta pigliavano un vigore meraviglioso dal grigio del cielo e dal verde cupo della campagna. Lo stesso Hamed Ben Kasen Buhamei, fermo sopra un rialto di terreno vicino all’accampamento, pareva che guardasse con compiacenza quei bei cavalieri che gli passavano dinanzi a grossi drappelli, silenziosi, gravi, cogli occhi fissi all’orizzonte, come avanguardie d’un esercito la mattina d’una giornata di battaglia. Per un buon tratto, camminammo in mezzo ad olivi e cespugli altissimi; poi entrammo in una vasta pianura tutta coperta di fiori gialli e violetti, dove la scorta si sparpagliò per fare il lab el barode. Lo spettacolo in quel luogo aperto, sopra quel tappeto di fiori, sotto quel cielo minaccioso era così stranamente bello, che l’Ambasciatore si fermò più volte, e fece fermare tutto il suo seguito, per contemplarlo. Non posso credere che quella gente abbia un’arte segreta di raggrupparsi e di disordinarsi; ma quella mattina me ne venne il sospetto. Avrei detto che tutti i loro movimenti e tutte le loro combinazioni di colori, erano stati concertati da un coreografo. In mezzo a quel tal gruppo di cavalieri dalle cappe turchine, s’andava sempre a ficcare, come se ce l’avessero mandato, un cavaliere colla cappa bianca. In mezzo a un gruppo di caffettani bianchi, cascava sempre a proposito, come la pennellata d’un artista, un caffettano color di rosa. I colori armonici si cercavano, s’univano, amoreggiavano insieme per la durata d’una carica, e si separavano per formare altre armonie. Eran trecento e parevano un esercito; si vedevano da tutte le parti; ci svolazzavano intorno come uno sciame di uccelli; ci assordavano, ci abbagliavano, c’innamoravano, facevano disperare i pittori.—Canaglia!—diceva l’Ussi—se v’avessi nelle unghie a Firenze! ALKAZAR-EL-KIBIR A un certo punto l’Ambasciatore fece un cenno al Caid, la scorta si fermò, e noi, accompagnati da alcuni soldati, andammo poco lontano di là a visitare le rovine d’un ponte. Arrivati sulla sponda, ci fermammo: del ponte non rimanevano che pochi ruderi sulla sponda opposta. Si stette qualche minuto guardando alternatamente quei ruderi e la campagna, ciascuno assorto nei suoi pensieri. E il luogo era degno veramente di quella testimonianza muta di rispetto. Duecentonovantasette anni prima, il giorno quattro d’agosto, sopra quei campi fioriti tuonavano cinquanta cannoni e turbinavano quarantamila cavalli sotto il comando d’uno dei più grandi capitani dell’Africa, e d’uno dei più giovani, più avventurosi e più sventurati monarchi d’Europa. Per le sponde di quel fiume fuggivano alla rinfusa, rotolavano nel sangue, domandavano grazia, si precipitavano nelle acque per sfuggire alle scimitarre implacabili degli arabi, dei berberi e dei turchi, il fiore della nobiltà portoghese, cortigiani, vescovi, soldati spagnuoli e soldati di Guglielmo d’Orange, avventurieri italiani, tedeschi e francesi; e la cavalleria musulmana calpestava sei mila cadaveri di cristiani. Eravamo sul terreno di quella memorabile battaglia d’Alkazar, che costernò l’Europa e fece risonare un grido di gioia da Fez a Costantinopoli. Quel fiume era il Mkhacem. Su quel ponte passava, al tempo della battaglia, la strada d’Alkazar. In vicinanza del ponte era l’accampamento di Mulei Moluk, sultano del Marocco. Mulei Moluk veniva da Alkazar, il re di Portogallo veniva da Arzilla. La battaglia fu combattuta sulle rive di quel fiume, nella pianura che ci si stendeva dintorno. Quante immagini ci si affollavano! Ma fuorchè le rovine del ponte, non v’era una pietra, un segno che ricordasse qualcosa. Da che parte aveva fatto le sue prime cariche vittoriose la cavalleria del duca di Riveiro? Dove aveva combattuto Mulei-Amed, il fratello del Sultano, il futuro conquistatore del Sudan, capitano sospetto di codardia la mattina, re vittorioso la sera? In qual punto del fiume s’era annegato Mohamed il nero, fratricida scoronato, provocatore della guerra? In qual angolo del campo il re Sebastiano aveva ricevuto il colpo di fucile e i due fendenti di scimitarra, che uccidevano con lui l’indipendenza del Portogallo e le ultime speranze del Camoens? E dov’era la lettiga del Sultano Moluk, quand’egli spirò in mezzo ai suoi ufficiali mettendosi il dito sulla bocca? Mentre stavamo, su questi pensieri, la scorta ci guardava di lontano, immobile in mezzo a quella pianura famosa, come un manipolo di cavalieri di Mulei-Hamed risuscitati da terra al rumore del nostro passaggio. Eppure non uno forse di quei soldati sapeva che quello era il campo della battaglia dei tre Re, gloria dei loro padri; e quando ci mettemmo in cammino con loro, guardavano ancora qua e là con occhio curioso, come per cercare se in quell’erbe e in quei fiori ci fosse qualcosa di strano che spiegasse la nostra fermata. Si passò il Mkhacem e l’Uarrur,—due piccoli affluenti del Kus, o Lukkos, il Lixos degli antichi, che dalle montagne del Rif, dove nasce, si va a gettare nell’Atlantico a Laracce;—e si continuò a camminare verso Alkazar a traverso a una serie di colline aride, non incontrando che di mezz’ora in mezz’ora qualche arabo e qualche cammello. Finalmente, pensavamo strada facendo, s’arriverà a una città! Eran tre giorni che non vedevamo una casa e sentivamo tutti il desiderio di uscire per un giorno dalla monotonia della solitudine. Oltre a ciò Alkazar era la prima città dell’interno a cui giungevamo. Sapevamo d’essere aspettati. La curiosità era viva. La scorta si ordinava, via via che ci avvicinavamo. Noi stessi, quasi senza accorgercene, ci trovammo schierati in due linee come un drappello di cavalleria, l’Ambasciatore dinanzi, gl’interpreti ai lati. Il tempo s’era rasserenato, e un’impaziente allegrezza animava tutta la carovana. Dopo quattr’ore di cammino, all’improvviso, dall’alto d’una collina, vedemmo giù nella pianura in mezzo a una cintura di giardini, la città d’Alkazar coronata di torri, di minareti e di palme, e nello stesso punto ci ferì l’orecchio uno strepito di fucilate e il suono d’una musica infernale. Era il governatore della città che ci veniva

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Argomenti: concetto immenso,    vigore meraviglioso,    cielo minaccioso,    giorno quattro,    memorabile battaglia

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