Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 33

Testo di pubblico dominio

sentiva un souffle de crevaison, quei muri che risonavano come pancie vuote, quelle porte da cui usciva una perpetua musica di legnate e di strilli di mioches morti di fame. C'era pure la pianta della bottega di Gervaise, stanza per stanza, coll'indicazione dei letti e delle tavole, in alcuni punti cancellata e corretta. Si vedeva che lo Zola ci s'era divertito per ore e per ore, dimenticando forse anche il romanzo, tutto immerso nella sua finzione, come in un proprio ricordo. Su altri fogli c'erano appunti di vario genere. Ne notai due principalmente:—venti pagine di descrizione della tal cosa,—dodici pagine di descrizione della tal scena, da dividersi in tre parti.—Si capisce che aveva la descrizione in capo, formulata prima d'essere fatta, e che se la sentiva sonar dentro cadenzata e misurata, come un'arietta a cui dovesse ancora trovare le parole. Son meno rare di quello che si pensi, queste maniere di lavorare, anche in cose d'immaginazione, col compasso. Lo Zola è un grande meccanico. Si vede come le sue descrizioni procedono simmetricamente, a riprese, separate qualche volta da una specie d'intercalare, messo là perchè il lettore ripigli rifiato, e divise in parti quasi uguali; come quella dei fiori del parco nella Faute de l'abbé Mouret, quella del temporale nella Page d'amour, quella della morte del Coupeau nell'Assommoir. Si direbbe che la sua mente, per lavorar poi tranquilla e libera intorno alle minuzie, ha bisogno di tracciarsi prima i confini netti del suo lavoro, di sapere esattamente in quali punti potrà riposare, e quasi che estensione e che forma presenterà nella stampa il lavoro proprio. Quando la materia gli cresce, la recide per farla rientrare in quella forma, o quando gli manca, fa un sforzo per tirarla a quel segno. È un invincibile amore delle proporzioni armoniche, che qualche volta può generare prolissità; ma che spesso, costringendo il pensiero ad insistere sul suo soggetto, renda l'opera più profonda e più completa. C'erano, oltre a queste, delle note estratte dalla Réforme sociale en France del Le Play, dall'Hérédité naturelle del dottor Lucas, e da altre opere di cui si valse per scrivere il suo romanzo; Le sublime, fra le altre, che dopo la pubblicazione dell'Assommoir fu ristampato e riletto; poichè è un privilegio dei capolavori quello di mettere in onore anche le opere mediocri di cui si sono giovati. Lo interrogammo intorno ai suoi studi di lingua. Ne parlò con molta compiacenza. Si crede generalmente che abbia studiato l'argot nel popolo; sì, in parte; ma più nei dizionarii speciali, che son parecchi, e buonissimi; come imparò in special modo dai dizionari d'arti e mestieri quella ricchissima terminologia d'officina e di bottega, che è nei suoi romanzi popolari. Ma per scrivere l'argot non bastava consultare il dizionario; bisognava saperlo, ossia rifarselo. Si fece perciò un dizionario diviso a soggetti, e vi andò man mano registrando le parole e le frasi che trovava nei libri e che raccattava per la strada. Scrivendo Assommoir, prima di trattare un soggetto, scorreva la parte corrispondente del dizionario; poi scriveva tenendolo sotto gli occhi, e cancellava con un lapis rosso ogni frase, via via che la metteva nel libro, per evitar di ripeterla.—Io son un uomo paziente, vedete,—disse poi;—lavoro colla placidità d'un vecchio compilatore; provo piacere anche nelle occupazioni più materiali; prendo amore alle mie note e ai miei scartafacci; mi cullo nel mio lavoro, e mi ci trovo bene, come un pigro nella sua poltrona. Lo strano è che diceva tutte queste cose senza sorridere; ma nemmeno con un barlume di sorriso. Il suo viso pallidissimo non ebbe mai una di quelle mille espressioni convenzionali di amabilità o di gaiezza, che si usano dalle persone più fredde per dar colore alla conversazione. In verità non ricordo d'aver mai visto al mondo un viso più «indipendente.» Faceva un solo movimento di tratto in tratto: dilatava le narici e stringeva i denti, facendo risaltar le mascelle; il che gli dava un'espressione più vigorosa di risoluzione e di fierezza. Parlò del successo dell'Assommoir. Disse che, mentre scriveva quel romanzo, era le mille miglia lontano dal prevedere il chiasso che fece. Era stato costretto a interromperlo per una malattia della sua signora; ci s'era poi rimesso di mala voglia; il cuore non gliene diceva bene. Di più, un amico di cui egli faceva gran conto, letto il manoscritto, gli aveva presagito un mezzo fiasco. A lui stesso pareva che il soggetto non fosse «interessante.» Lasciò indovinare, insomma, che nemmeno dopo il suo grande successo, non era quello il romanzo a cui teneva di più. —Qual è dunque?—gli domandai. La sua risposta mi diede una grande soddisfazione. —Le ventre de Paris,—rispose. E infatti la storia di quel grasso e iniquo pettegolezzo plebeo, che finisce per perdere un povero galantuomo, e che si svolge dalla prima all'ultima pagina in quel singolarissimo teatro delle Halles, pieno di colori, di sapori e d'odori, fra quelle pescivendole dalle rotondità enormi e impudenti, fra quegli amori annidati nei legumi e nelle penne di pollo, in mezzo a quello strano intreccio di rivalità bottegaie e di congiure repubblicane, m'è sempre parsa una delle più originali e delle più felici invenzioni dell'ingegno francese. Venne a parlare delle critiche che si fecero all'Assommoir. Anche parlando, egli sceglie sempre la frase più dura e più recisa per esprimere il proprio pensiero. Accennando a una scuola che non gli va a genio, disse:—Vedrete che famoso colpo di scopa ci daremo dentro!—In ogni sua parola si sente il suo carattere fortemente temprato, non solo alle resistenze ostinate, ma agli assalti temerarii. Nelle sue critiche, infatti, dà addosso a tutti. Ne raccolse parecchie in un volume e le intitolò:—I miei odii.—Si capisce. Deve tutto a sè stesso, è passato per tutte le prove, è coperto di cicatrici: la battaglia è la sua vita; vuole la gloria, ma strappata a forza; e accompagnata dal fragore della tempesta. Le critiche più spietate non fanno che irritare il suo coraggio. Gli gridarono la croce per le crudità della Curée; egli andò del doppio più in là nell'Assommoir. Prova una feroce voluttà nel provocare il pubblico. «Gli insuccessi» non gli passano nemmeno la prima pelle. Avanti!—disse dopo una delle sue più grandi cadute—; io sono a terra; ma l'arte è in piedi. Forse che la battaglia è perduta perchè il soldato è ferito? Al lavoro, e ricominciamo!—E dice il fatto suo alla critica, alla sua maniera.—La critica francese manca d'intelligenza—; nientemeno.—Non ci sono in tutta la Francia che tre o quattro uomini capaci di giudicare un libro.—Gli altri o giudicano con tutti i pregiudizii letterarii degli sciocchi, o sono pretti impostori.—Ha questo gran difetto,—come gli diceva un amico:—che quando parla con un imbecille, gli fa capire immediatamente che è un imbecille;—difetto,—dice,—che gli chiuderà sempre tutte le porte. Ma a lui non importa d'essere, amato. Egli considera il pubblico come il suo nemico naturale. Che serve accarezzarlo? È una mala bestia che risponde alle carezze coi morsi. Tanto vale mostrargli i denti e fargli vedere che non sono meno forti dei suoi. Latri a sua posta, purchè ci segua. Eppure s'ingannano quelli che argomentano da questa sua asprezza di carattere ch'egli non abbia cuore. Tutti i suoi amici intimi lo affermano. In casa, colla sua famiglia, è un altro Zola; ha pochi amici, ma li ama fortemente; non è espansivo, ma servizievole. E scrive delle lettere piene di sentimento. Ha un cuore affettuoso, sotto una corazza d'acciaio. Spiegò poi meglio il concetto che ha del pubblico, parlando della vendita dei libri a Parigi. —Qui non si fa nulla,—disse, smettendo per la prima volta il pugnale, ma riafferrandolo subito,—nulla, se non si fa chiasso. Bisogna essere discussi, maltrattati, levati in alto dal bollore delle ire

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