Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 3

Testo di pubblico dominio

carrozza, descrivendo un immenso zig-zag sulla destra della Senna, per veder circolare la vita nelle arterie minori di Parigi. Rivedo con vivo piacere quel verdeggiante e splendido boulevard di Sebastopoli e di Strasburgo, che par fatto per il passaggio trionfale d'un esercito, e quella infinita via Lafayette, in cui le due striscie nere della folla si perdono allo sguardo in una lontananza vaporosa dove pare che cominci un'altra metropoli. Ripasso per quelle smisurate spaccature di Parigi, che si chiamano il boulevard Haussman, il boulevard Malesherbes, il boulevard Magenta, il boulevard Principe Eugenio, in cui si sprofonda lo sguardo con un fremito, come in un abisso, afferrando per un braccio il compagno. Andiamo al Rondpoint de l'Etoile a veder fuggire in tutte le direzioni, come una corona di raggi, le grandi vie che dividono in una rosa di quattordici allegri quartieri triangolari la decima parte di Parigi. Ritorniamo nel cuore della città: percorriamo la rete inestricabile delle piccole vie, piene di rumori, smaglianti di vetrine e affollate di memorie; tutte obliquità e svolti maliziosi, che preparano le grandi vedute inaspettate dei quadrivi pieni di luce e delle vie monumentali, chiuse in fondo da una mole magnifica, che sovrasta alla città come una montagna di granito cesellato. Per tutto è una fuga di carrozze cariche di bagagli, e visi sonnolenti e polverosi di nuovi arrivati, che s'affacciano agli sportelli a interrogare quel caos; e vicino alle stazioni, file di viaggiatori a piedi, che s'inseguono colla valigia in mano, come se uno l'avesse rubata all'altro. Non c'è un momento di riposo, nè per l'orecchio, nè per l'occhio, nè per il pensiero. Sperate di bere la vostra birra in pace davanti a un caffè quasi vuoto. Illusione. La réclame vi perseguita. Il primo che passa vi mette in mano una lirica che comincia con un'invettiva contro l'Internazionale e finisce coll'invitarvi a comprare un soprabito da Monsieur Armangan, coupeur émérite; e un momento dopo vi trovate tra le mani un sonetto che vi promette un biglietto per l'Esposizione se andate a ordinare un paio di stivali in via Rougemont. Per liberarvene alzate gli occhi. Oh Dio! Passa una carrozza dorata di réclame coi servitori in livrea, che vi propone dei cilindri al ribasso. Guardate in fondo alla strada. Che! A mezzo miglio di distanza, c'è una réclame a caratteri titanici del Petit journal,—«seicento mila esemplari al giorno, tre milioni di lettori»—che vi fa l'effetto d'un urlo nell'orecchio. Alzate gli occhi al cielo, allora! Ma non c'è di libero nemmeno il cielo. Al di sopra del più alto tetto del quartiere, si disegna nell'azzurro, in sottili e altissimi caratteri di ferro, il nome d'un artista delle nuvole che vuol farvi la fotografia. Non c'è dunque altro che tener gli occhi inchiodati sul tavolino! No, nemmeno! Il tavolino è diviso in tanti quadretti colorati e stampati, che vi offrono delle tinture e delle pomate. Torcete il volto stizziti…. Ah disgraziati! La spalliera della seggiola vi raccomanda un guantaio. Non resta altro rifugio che guardarsi i piedi, dunque! No, non resta neppure questo rifugio. Sotto i vostri piedi, sull'asfalto, c'è un avviso a stampatello che vuol farvi mangiare alla casalinga in via della Chaussée d'Antin. Camminando un'ora, si legge, senza volerlo, un mezzo volume. È una inesauribile decorazione grafica variopinta ed enorme aiutata da immagini grottesche di diavoli e di fantocci alti come case, che v'assedia, vi opprime, vi fa maledire l'alfabeto. Quel Petit journal, per esempio, che copre mezza Parigi! Ma bisogna o ammazzarsi o comprarlo. Tutto ciò che vi si mette in mano, dal biglietto del battello al contrassegno della seggiola su cui riposate le ossa nel giardino pubblico, tutto nasconde l'insidia della réclame. Persino le pareti dei tempietti, dove non s'entra che per forza, parlano, offrono, raccomandano. Ci sono in tutti gli angoli mille bocche che vi chiamano e mille mani che v'accennano. È una rete che avvolge tutta Parigi. E tutto è economico. Potete spendere fino all'ultimo centesimo credendo sempre di fare economia. Ma quanta varietà di oggetti e di spettacoli! Nello spazio di quindici passi vedete una corona di diamanti, un mazzo spropositato di camelie, un mucchio di tartarughe vive, un quadro a olio, una coppia di signorine automatiche che nuotano in una vaschetta di latta, un vestimento completo da contentare l'uomo «più scrupolosamente elegante» per otto lire e cinquanta centesimi, un numero del Journal des abrutis con un articolo a doppio taglio sull'esposizione delle vacche, un gabinetto per gli esperimenti del fonografo, e un bottegaio che dà il volo a un nuvolo di farfalle di penna per adescare i bimbi che passano. A ogni tratto vedete schierate tutte le faccie illustri della Francia. Non c'è città che in questo genere d'esposizione eguagli Parigi. L'Hugo, l'Augier, mademoiselle Judic, il Littré, il Coquelin, il Dufaure, il Daudet, sono in tutt'i buchi. Incontrate dei visi d'amici da tutte le parti. E nessuna impressione, neanche dei luoghi, è veramente nuova. Parigi non si vede mai per la prima volta; si rivede. Non ricorda nessuna città italiana; eppure non par straniera, tanto vi si ritrovano fitte le reminiscenze della nostra vita intellettuale. Un amico vi dice:—Ecco la casa del Sardou, ecco il palazzo del Gambetta, ecco le finestre del Dumas, ecco l'ufficio del Figaro—e a voi vien naturale di rispondere: Eh! lo sapevo.—Così riconoscendo mille cose e mille aspetti, continuiamo a girare, rapidamente, in mezzo a incrociamenti di legni da cui non vedo come usciremo, a traverso a folle serrate che ci arrestano all'improvviso, nelle ombre deliziose del Parco Monceaux, intorno alle grandi arcate leggiere delle Halles, davanti agli immensi «magazzini di novità» assiepati di carrozze, intravvedendo, di lontano, ora un fianco del teatro dell'Opera, ora il colonnato della Borsa, ora la tettoia enorme d'una Stazione, ora un palazzo incendiato dalla Comune, ora la cupola dorata degli Invalidi, e dicendoci l'un l'altro mille cose, e le stesse cose, e con la più viva espansione, senza pronunziare una parola e senza ricambiarci uno sguardo. Avevo inteso dire che uno straniero a Parigi non si accorge quasi che ci sia l'Esposizione. Baie. Tutto conduce il pensiero all'Esposizione. Le torri del Trocadero si vedono effigiate da tutte le parti, come se mille migliaia di specchi le riflettessero, e l'immagine del Campo di Marte vi si presenta per mille vie e sotto mille forme. Tutta la popolazione sembra ed è infatti d'accordo per fare ben riescire la festa. V'è un raffinamento universale di cortesia. Tutti fanno la loro parte. Fin l'ultimo bottegaio sente la dignità dell'ospite; si legge in viso a ogni parigino la soddisfazione d'essere «azionista» del teatro in cui si offre al mondo il grande spettacolo, e la coscienza di essere un oggetto d'ammirazione. Il che serve moltissimo a rendersi davvero ammirabili. La grande città fa il bocchino, è premurosa, vuol contentar tutti. E infatti a tutti i bisogni, a tutti i desiderii, a tutti i capricci, ha provvisto, in mille modi, a ogni prezzo e a ogni passo. Per questa «festa del lavoro» c'è la febbre. Il lavoro, la pace, la grande fratellanza, la grande ospitalità fraterna, risuonano da ogni parte. E forse, anzi certo, vi si nasconde sotto un altro sentimento. È l'amor proprio ferito in un'altra gloria, che s'afferra tutto alla gloria presente, per compensarsi della passata; ed esalta con tutte le sue forze il primato che le rimane, per gettare l'oscurità su quello, in fondo al cuore forse più caro, che ha perduto. È nondimeno prodigioso il vedere questa città, che parve un giorno caduta in fondo, sotto il peso di tutte le maledizioni di Dio, dopo sette anni, così splendida, così superba, così piena di sangue, d'oro e di gloria! E si prova un sentimento inaspettato arrivandoci. S'era partiti per l'Esposizione; era

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Argomenti: grande città,    mezzo miglio,    rete inestricabile,    mille mani,    splendido boulevard

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