Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 25

Testo di pubblico dominio

se faire la main. La giornata non gli basta per mettere sulla carta tutto quello che gli ribolle nella testa e nel cuore. Ma il buon Dio gli darà lunga vita ed egli ci darà ancora venti volumi. Udendo queste parole, non potevo trattenermi dal guardare quel vecchio meraviglioso, come una creatura d'un altro mondo, e al pensare ch'egli lavorava ancora, a quell'età, con un vigore che io non avevo mai avuto, e che lavorava già in quella maniera venticinque anni prima ch'io fossi nato, mi sentii annichilito. Intanto Vittor Hugo parlava di molte piccole occupazioni che sovente gli portavan via la giornata senza che quasi se n'accorgesse, e diceva con voce stanca, ma bonariamente: —Je n'ai pas un minute á moi, vous le voyez bien. E tutti risposero a una voce:—È vero. Poi un po' l'uno e un po' l'altro ricominciarono a raccontare delle barzellette, col proposito espresso, credo, di rallegrarlo; ma ci riuscivano di rado. Di tratto in tratto egli girava lo sguardo intorno, e lo fissava su di me o sul giovane belga, come se s'accorgesse soltanto in quel momento che noi eravamo là, e per toglierci questo sospetto, ci salutava con un sorriso benevolo e rapido, che voleva dire:—Non vi scordo.—Poi gli ridiscendeva sul viso, come una visiera, la sua tristezza. E intanto io spiavo l'occasione di potergli dir qualche cosa in un cantuccio, che nessun altro sentisse. Ah! non mi mancavano mica, allora, le cose da dirgli. Il coraggio m'era venuto, mille domande mi s'affollavano. Avrei dato un anno della mia vita per poter esser solo un'ora con lui, e afferrarlo per le mani, e dirgli sfrontatamente, guardandolo fisso:—Ma insomma, Hugo! Io voglio leggerti dentro! Che cosa ti senti nel sangue quando scrivi? Che cosa vedi intorno a te, per aria; che voce senti, che ti parla nell'orecchio quando crei? Che cosa fai nella tua stanza, quando ti splende alla mente una di quelle grandi idee che fanno il giro della terra, e quando ti sgorga dalla penna uno di quei versi che vanno al cuore come un colpo di pugnale o come il grido d'un angelo? Dove l'hai conosciuta la tua Rose della vieille chanson du Printemps, che mi ha fatto sospirare per un anno? Di dove t'è uscito quello spaventoso Mazzeppa, di cui vedo perpetuamente la fuga? Come l'hai sognata la Fidanzata del Timballiere? Di dove l'hai cavato Quasimodo? Rivelami dunque uno dei tuoi mille segreti. Parlami di Fantina, parlami del Petit roi de Galice, dimmi qualche cosa del marchese di Lantenac, spiegami come t'è apparso lo spettro che t'ispirò quella spietata pioggia di sangue sulla testa del parricida Kanut, e quell'orribile occhio di fuoco che insegue Caino; dimmi in che parte dell'inferno hai scovato l'amore del prete Claudio e in che parte del cielo hai visto il viso bianco di Dea! Parlami della tua infanzia, delle prime rivelazioni del tuo genio, di quando il Chateaubriand ti chiamò fanciullo sublime; raccontami delle tue veglie tempestose; dimmi se gridi quando ti balenano le immagini che sgomentano, dimmi se piangi quando scrivi le parole che strappano i singhiozzi, descrivimi le tue torture, le tue ebbrezze e le tue furie, dimmi che cosa pensi e che cosa sei, vecchio misterioso e tremendo! E pensando queste cose andavo cercando una frase molto significante con cui cominciare il discorso, nel caso che il destro si presentasse. La fortuna m'assistè. Vittor Hugo uscì per un momento, poi tornò vicino al camminetto e mi sedette accanto. La conversazione s'era rotta in molte conversazioni. Il momento non poteva essere più opportuno. Cento interrogazioni mi corsero in un punto alle labbra, e cominciai arditamente:—Signore! Vittor Hugo si voltò cortesemente, mi mise una mano sopra un ginocchio e mi guardò in atto d'aspettazione. Che cosa volete! Sono disgrazie che possono capitare a tutti. Vi ricordate del sarto letterato dei Promessi sposi, che dopo aver studiate mille belle cose da dire al cardinal Federigo per farsi onore, arrivato il momento, non sa dir altro che un:—Si figuri!—di cui rimane avvilito per tutta la vita? Ebbene, mi duole il dirlo, e lo dico per castigarmi: io feci la stessissima figura di quel sarto; anzi una figura cento volte più trista. Lo sguardo fisso di Vittor Hugo mi turbò, tutte le mie belle idee scapparono, e non dissi altro che questo… Insomma, bisogna ch'io lo dica. Io gli domandai se era stato a vedere l'Esposizione! E rimasi là fulminato dalla mia domanda. Non ricordo più che cosa Vittor Hugo m'abbia risposto. Ricordo soltanto che, qualche momento dopo, parlando dell'Esposizione, disse:—C'est un beau joujou. —Mais c'est immense, savez vous, mon maître,—gli osservò un tale. Ed egli rispose sorridendo:—c'est un immense joujou. Queste parole, presso a poco, mi parve di sentire dal cupo fondo della mia umiliazione. E non osai più aprir bocca. Vittor Hugo, poco dopo, cambiò di posto, le conversazioni parziali tornarono a confondersi in una sola: l'occasione era perduta. Ma mi consolai presto. Vittor Hugo ricominciò a parlare, ed io socchiudendo gli occhi e guardando in alto, per essere un po' solo con me stesso, cominciai a riandare tutte le belle emozioni di cui ero debitore a quell'uomo, accompagnando il mio pensiero al suono dolce e grave della sua voce; e pensavo alle letture di Notre Dâme fatte di nascosto dietro i banchi della scuola, alle tante volte che avevo baciato i volumi delle Contemplazioni sotto un capanno di gelsomini, nel giardino della mia casa paterna; ai versi suoi che solevo declamare sotto la tenda, di notte, in mezzo al silenzio degli accampamenti; al batticuore che avevo provato la prima volta che m'era caduto sotto gli occhi un suo informe ritratto in litografia; all'immensa distanza che sentivo tra lui e il mio desiderio di conoscerlo, nella piccola città di provincia dove avevo letto il suo primo libro; a un giorno che, ancora ragazzo, avevo fatto ridere mio padre domandandogli:—E se comparisse tutt'a un tratto Vittor Hugo, mentre noi siamo a tavola, che cosa faresti?—; e tutti questi ricordi lontani, evocati là, vicino a lui, mi commovevano, e ripetevo tra me:-Ed ora l'ho conosciuto, lo conosco, sono nella sua casa; questa voce che sento è la sua;—egli è qui,—a un passo da me. Ma è proprio vero?—E aprivo gli occhi e dicevo:—Eccolo lì, il mio caro e terribile Hugo; non è mica un sogno, per Dio! Mentre m'abbandonavo a questi pensieri, sentii tutt'a un tratto che tutti s'alzavano e salutavano. M'avvicinai anch'io a Vittor Hugo, gli presi la destra con tutt'e due le mani…. e non potei dire una parola. Ma egli mi guardò e mi comprese, e disse, stringendomi la mano, e fissandomi con uno sguardo sorridente e un po' triste: —Addio, caro signore. Poi soggiunse:—No, addio. A rivederci, non è vero? Non so…. mi par d'aver fatto la bestialità di rispondere: A rivederci. E uscii di là commosso, felice, con un po' di melanconia, e molto confuso, dando una fiancata in un seggiolone. VIII. Questa è l'impressione che mi fece Vittor Hugo in casa sua. Ma non l'avrei visto intero, se non l'avessi visto in pubblico, in una di quelle solennità, nelle quali, qualunque siano, la sua presenza è lo spettacolo più curiosamente desiderato. Lo vidi nel teatro del Châtelet quando pronunziò il suo discorso di presidente per l'inaugurazione del Congresso letterario. Un'ora prima che comparisse, quel vasto teatro era già affollato. La platea era piena di scrittori e d'artisti d'ogni paese, fra cui s'incrociavano gli sguardi curiosi, i cenni e le interrogazioni, conoscendo ciascuno, in quella folla, moltissimi nomi e pochissimi visi, ed essendo desiderio di tutti di completare in quella bella occasione le proprie conoscenze. Si vedeva un gran movimento di teste canute e di teste giovanili, di begli occhi pieni di pensiero, di visi che s'avvicinavano e si sorridevano, di chiome nere che si chinavano dinanzi alle chiome bianche, di mani che si cercavano e si stringevano; e si sentiva parlare tutte le lingue, e correre in

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Argomenti: sguardo fisso,    suono dolce,    maniera venticinque,    sorriso benevolo,    sarto letterato

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