Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 14

Testo di pubblico dominio

il Durand presenta il Girardin; il Perrin espone il Daudet; e il Thiers rivive gloriosamente nella tela del Bonnat, davanti a cui si accalca la folla. Un'altra folla silenziosa e immobile annunzia nella medesima sala le miniature meravigliose del Meissonnier. Più in là sorridono le patrizie eleganti del Cabanel, e il Laurens strappa un sospiro presentando insieme, nel suo nobilissimo Marceau, la bellezza, l'eroismo e la morte. Andando innanzi, trovo quella meravigliosa curvatura di schiene che ha fatto sorridere il mondo: l'Eminence grise del Gerôme; e il giustiziere formidabile del povero Henri Regnault: quadro splendido e triste, che serve di coperchio a un sepolcro. E in fine le gigantesche e tragiche tele di Benjamin Constant: Respha che respinge l'avoltoio dal patibolo dei figli di Saul e Maometto II che irrompe in Costantinopoli fra le rovine e la morte; nella stessa sala, dove lo schiavo avvelenato del Sylvestre agonizza sotto gli occhi di Nerone impassibile, e il Davide del Ferrier solleva la testa mostruosa del gigante. E in fondo strepita e ride il grande baccanale del Duval. Di là si esce affaticati e confusi, come dalla rappresentazione d'una tragedia dello Shakespeare, e s'entra fra i vasti quadri storici dell'Austria-Ungheria, splendidi d'armi, d'oro e di sete, e in mezzo ai grandi ritratti alla Velasquez e alla Van Dyck, che danno al luogo l'aspetto grave e magnifico d'una reggia. Qui vorrei baciare in fronte il Munkacsy, che dipinse quella divina testa del Milton, e gridare un viva sonoro davanti all'enorme, splendida, tumultuosa, temeraria tela del Makart, tutta irradiata dal viso bianco di Carlo V, su cui brilla un pensiero vasto come il suo regno, e un'espressione indimenticabile di grazia giovanile e di maestà serena, che ci fa aggiungere un applauso al clamore del suo trionfo. Ed ecco Don Chisciotte, le manolas, i majos, i ritratti graziosi del Madrazo e la Lucrezia romana del Plasencia, in cui guizza un lampo degli ardimenti del Goya. Ma c'è una parete dinanzi alla quale il cuore si stringe. Povero e caro Fortuny, bel fiore di Siviglia sbocciato al sole di Roma! I suoi capolavori son là, caldi, luminosi, pieni di riso e di vita, divorati cogli occhi da una folla commossa, ed egli è sotterra. E così il povero Zamoïcis non può più venir a godere del trionfo delle sue belle scene di monaci e di pazzi, come nelle sale austriache non può più affacciarsi il Cermak per veder scintillare e inumidirsi mille occhi davanti al suo glorioso Montenegrino ferito. Quanti cari e nobili artisti mancano alla festa! Lo sguardo li cerca ancora tra la folla mentre il pensiero corre ai cimiteri lontani, e i loro quadri spandono intorno la tristezza dell'ultimo addio. Delle sale successive non conservo che una reminiscenza vaga di mari in tempesta, di steppe illuminate dalla luna, di tramonti solenni sopra immense solitudini di neve, e paesaggi tristi di Finlandia e d'Ukrania, fra cui m'appariscono confusamente i volti minacciosi d'Ivan il Terribile e di Pietro il Grande, e i cadaveri insanguinati dei martiri bulgari. Qui l'arte pare che riposi un poco per rialzarsi più vigorosa e più ardita. E si rialza infatti nel Belgio, ricca, ispirata, improntata d'un carattere proprio, nudrita di forti studi e di tradizioni gloriose. A. Stevens e il Villems espongono i loro quadri di costumi, mirabili di grazia e di colorito, e I. Stevens i suoi cani inimitabili; il Wauters o il Cluysenaar superano trionfalmente gli alti pericoli del quadro storico e le difficoltà delicate del ritratto; e altri cento artisti gareggiano con una varietà stupenda di paesaggi pieni di poesia, di marine melanconiche, di teste adorabili di fanciulli, di scherzi arguti, di fantasie gentili, che sollevano la mente ed allargano il cuore. Poi il Portogallo e la Grecia; grandi nomi, piccole cose. Eppure ci son dei quadretti trascurati e spregiati, che lasciano un'impressione indelebile, come la madre megarese del Rallis, quella povera moglie di pescatore seduta nella sua povera stanza, che tien le mani incrocicchiate e gli occhi fissi sopra una culla vuota, fatta di quattro tavole rozze, in atto di dire;—Non c'è più!—mentre i pannilini ancora freschi fanno comprendere che l'han portato via poco prima, e su quella desolazione scende per la finestra aperta il raggio allegro dell'alba che lo svegliava ogni giorno: espressione manchevole forse, ma d'un sentimento sublime, che mette nel petto il tremito d'un singhiozzo. Dopo la Grecia vien la pittura facile e fresca della Svizzera, svariata di cento stili; immagine vera d'un paese di cento pezzi e d'una famiglia d'artisti vaganti alla ricerca d'un ideale, d'una scuola, d'un centro di sentimenti e di idee; che frammischiano alla loro patria dal rozzo fianco, alle cascate, alle gole, ai ghiacciai, agli uragani delle Alpi, le rive ridenti di Sorrento, le architetture arabescate del Cairo, le solitudini ardenti della Siria, la campagna desolata di Roma, e ogni sorta di ricordi della loro vita varia e avventurosa; somigliante a quella degli avi loro, che vestirono la divisa di tutti i principi e versarono sangue per tutte le bandiere, Alla Svizzera tien dietro la Danimarca, che ricorda al mondo le sue glorie guerriere, colla battaglia d'Isted, del Sonne, e colla battaglia navale di Lemern, del Mastrand. Ma è bello, è commovente il veder passare tutti questi popoli, ognuno dei quali mostra con amore e con alterezza i suoi soldati, i suoi re, le suo belle donne, i suoi bimbi, le sue cattedrali, le sue montagne. L'impulso di simpatia che non si sentirebbe per ciascuno, visto a parte, si sente per tutti, vedendoli insieme; e il cuore risponde e acconsente a tutti quei palpiti d'amor di patria con un'espansione d'affetto che abbraccia il mondo. Gli altri quadri danesi son paesaggi che rendono effetti pallidi di sole sopra campagne nevose, su parchi e su castelli feudali, e su grandi boschi, e scene intime di costumi, sentite ingenuamente e rese con fedeltà scrupolosa, che lasciano nella memoria mille immagini di volti, di atteggiamenti, di oggetti, di faccende, come farebbe il soggiorno d'un mese in Danimarca. E di qui riesco, quasi senza avvedermene, nelle sale dell'Olanda, dinanzi a una pittura che par velata dai vapori delle grandi pianure allagate, e vedo infatti vagamente, come a traverso un velo, i poveri e gli infermi dell'Israels, il pittore della sventura; le belle marine del Mesdag, i polders del Gabriel, i gatti di Enrichetta Ronner, e cento altri quadri grigi, foschi, umidi, di cattivo umore, fra i quali cerco inutilmente un raggio della luce miracolosa del Rembrandt o un riflesso del grande riso irresistibile dello Steen. Ultima è la vasta sala della Germania, magnifica e triste, nella quale si avverte, appena entrati, il vuoto enorme lasciato dal Kaulbach. Ma è una pittura poderosa, ringiovanita a tutte le sorgenti vive, fortificata di larghi studi, varia, ardita, virile, piena di sentimento, finissima d'osservazione e d'intenti, che desta un'ammirazione pensierosa e scuote il cuore nelle sue più intime fibre. Non scorderò mai più, certo, nè le teste vive e parlanti dello Knaus, nè l'officina ardente del Menzel, nè i superbi cosacchi del Brandt, nè la profonda tristezza del Battesimo dell'Hoff, nè il comicissimo riso dei soldati e delle nutrici del Werner, nè la madre e il padre ammirabili dell'Hildebrand che interrogano il volto smorto del bimbo infermo sgomentati da un presentimento tremendo. E con questa tristezza nel cuore, esco dall'Esposizione delle Belle Arti. Ma mi venne un altro pensiero, appena fui fuori. Mi si affacciarono alla mente i mille artisti di cui avevo visto le opere, sconosciuti e famosi, giovani che mandaron là la loro prima ispirazione e vecchi che ci lasciarono l'ultima; li vidi sparsi per tutto il mondo, nei loro studi pieni di luce, aperti sulle campagne solitarie, sui giardini, sul mare e sulle vie rumorose; e pensai quanta vita avevano versato fra tutti in quelle cento

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Argomenti: giustiziere formidabile,    grande baccanale,    pensiero vasto,    grazia giovanile,    raggio allegro

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