Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 23

Testo di pubblico dominio

vero?
Voi resterete con me tutta la sera.
Poi mi domandò: —Di che paese siete? Inteso ch'ero italiano, mi guardò fisso. Poi mi prese di nuovo la mano, mi fece sedere e sedette. Che cosa dirgli, Dio buono! A un uomo così, quando gli avete espresso con tutta l'anima quello che sentite per lui, lì su due piedi, nel primo impeto dell'entusiasmo, gli avete detto tutto. Non rimane che rivolgergli delle domande. Ma che cosa fargli dire ch'egli non abbia scritto? Conoscete da tanti anni tutti i suoi più intimi pensieri, ogni domanda par che sia oziosa, e poi quando si ha appena tanto animo da rispondere, non si può averne abbastanza da interrogare. Perciò rimasi lì, senza parola. E d'altra parte, che cosa poteva dire a me, lui? Nondimeno, per levarmi d'imbarazzo, mi fece parecchie domande intorno alle mie impressioni di Parigi, all'Esposizione, all'Italia; domande che, invece di togliermi d'imbarazzo, mi ci avrebbero messo fino agli occhi, se non mi fossi accorto che, da osservatore fine degli uomini, egli badava assai più alla viva commozione che trapelava dalla mia voce incerta, dalle mie risposte monosillabiche e dal mio sguardo fisso che io divorava, che non al senso di quello che io dicevo. E mi guardava con una cert'aria affettuosa, corrugando le sopracciglia e socchiudendo gli occhi per aguzzare lo sguardo, e sorridendo leggerissimamente, come se si compiacesse dell'effetto che mi produceva, e mi dicesse in cuor suo:—Guardami, via; levatene un po' la voglia, povero giovane, perchè te la leggo proprio sul viso, e m'hai l'aria d'un buon diavolo sincero. E l'osservai infatti, in quei pochi minuti, attentissimamente; ma non potei vederlo bene che più tardi perchè il lume non gli batteva sul viso. È di statura media, leggermente curvo, tarchiato. Ha la testa grossa, ma ben fatta; fronte vasta, collo di toro, spalle larghe, mani corte e grosse, e una carnagione rossigna da cui traspira la salute e la forza. Tutta la sua persona ha qualcosa di poderoso e d'atletico, come il suo genio. Ha i capelli irti e fitti, la barba intera e corta, bianchissima; gli occhi lunghi e stretti, un po' obliqui, come i fauni; il che dà al suo viso un aspetto un po' strano. Se siano neri o azzurri, non ricordo. Sono occhi vivissimi e mobilissimi, che paiono socchiusi, e appariscono soltanto come due punti scintillanti, che quando fissano, penetrano in fondo all'anima. Aveva una giacchetta d'orleans nero e il suo solito panciotto oscuro, abbottonato fin sotto il mento. La prima impressione che mi fece fu d'un uomo abitualmente triste. —Ora staremo un po' insieme,—mi disse, dopo avermi fatto qualche altra domanda,—e poi verrete di là con me, nel salotto, dove conoscerete alcuni degli uomini più notevoli della Francia. In che città abitate, in Italia? Diedi la mia risposta in fretta, e nello stesso punto mi prese una grande paura.—Se mi domandasse qual è la mia professione!—dissi tra me. E mi sentii diventar rosso fino alla radice dei capelli. Fortunatamente per me, mentre apriva la bocca per interrogare, entrò gente. Allora assistetti a una scena, o piuttosto a una serie di scene tra amene e commoventi, che mi diedero un'idea di cosa dev'essere la giornata di Vittor Hugo, e mi compensarono di non aver potuto continuare la conversazione a quattr'occhi. Un signore venne innanzi, e dopo di lui, a intervalli di pochi minuti, vari altri, di età diversa, i quali vedevano tutti Vittor Hugo per la prima volta, e avevan chiesto per lettera quel giorno stesso, da quanto m'accorsi, d'essere ricevuti. Uno veniva per domandare il permesso d'una ristampa di non so che poesia, un altro a chiedere una spiegazione intorno alla variante della scena di un dramma; un terzo a chiedere la licenza di dedicare un'opera; un quarto, un bel giovane belga, con una lunga cicatrice sul viso, si trovava nei miei stessissimi panni: veniva, mosso dalla ammirazione, non per altro che per veder Vittor Hugo. D'altri non mi ricordo. Ebbene, ebbi la consolazione di vedere che giovani e vecchi, francesi e stranieri, si presentavano presso a poco nel medesimo stato in cui mi trovava io al momento di passare la soglia. Le loro facce esprimevano, tutte una viva emozione, e tutti più o meno, spiccicavano le parole con molta fatica. E ammirai la dolcezza di modi di Vittor Hugo. A ognuno andava incontro e gli stendeva la mano con un atto cordiale e semplice. Ma non si ricordava, naturalmente, del nome di nessuno. Fingeva però di ricordarsene.—Mi ricordo benissimo—diceva—; senza dubbio. Voi siete molto amabile con me, signore.—Faceva seder tutti e stava a sentire, l'un dopo l'altro, i loro discorsi balbettati e imbrogliati, assentendo di tratto in tratto col capo. Non lo vidi mai sorridere. Pareva stanco,—Ma sicuro,—diceva infine, con voce dolce,—avrete quello che desiderate. Posso esservi utile in qualche cos'altro?—Parlando con quello della variante, mi fece strabiliare. Si trattava, se non sbaglio, d'una scena del Roi s'amuse. Egli se la ricordava verso per verso, e ne recitò speditamente una decina per rammentarsene uno che nel primo momento non gli era venuto alla mente. La sua memoria prodigiosa, del resto, si rivela nella immensa ricchezza della sua lingua e nelle citazioni infinite delle sue opere. Per ultimo si fece innanzi il giovane belga, timidamente, tormentando con tutt'e due le mani l'ala del suo cappello cilindrico, e disse con voce commossa, fissando in viso a Vittor Hugo due occhi azzurri e umidi:—Signore! Io son venuto a Parigi per vedervi. Sono di Bruges. Non avevo il coraggio di presentarmi. Mio padre mi scrisse:—Va, Vittor Hugo è grande e buono; non rifiuterà di riceverti.—E allora vi scrissi. Vi ringrazio. Mi sarei contentato di vedervi passare per la strada. Io vi debbo uno dei più bei giorni della mia vita, signore!—Disse queste poche parole con una semplicità e una grazia, da farsi baciare sulla fronte. Vittor Hugo gli rispose non so che cosa, affettuosamente, mettendogli una mano sulla spalla. Il suo viso sfolgorò. Tutti gli altri, in disparte, tacevano. Poi Vittor Hugo ci guardò tutti, l'un dopo l'altro, benevolmente; tutti gli tenevan gli occhi addosso, nessuno fiatava, egli parve un po' imbarazzato e sorrise; e fu per qualche momento una scena muta, ma piena di vita e di poesia, di cui serberò il ricordo e sentirò la gentilezza per sempre. Poi alcuni si congedarono e Vittor Hugo fece entrar gli altri nel salotto accanto, stringendo la mano a tutti, mentre gli passavano davanti. Questo secondo salotto era pieno di gente, la maggior parte amici di casa. Era un salotto di grandezza media, piuttosto basso, tappezzato di rosso, mobiliato signorilmente, senza pompa. Da una parte c'eran quattro sofà disposti a semicircolo, un po' discosti l'un dall'altro, intorno a un camminetto di marmo; sul camminetto, un antico specchio; sulle pareti, nessun quadro. La casa, tutto considerato, non mi parve una casa da poeta milionario. C'era però nella decorazione una predominanza di rosso cupo e di rosso sanguigno, che armonizzava col genio del padrone. La gente sparsa per la sala formava un quadro assai curioso. Il primo che mi diede nell'occhio, per la macchia stranissima che formava in quel quadro,—come certe parole bizzarre in una bella pagina dell'Hugo,—fu un mulatto di forme colossali, in giubba e cravatta bianca, che sfogliava un album. E gli domando scusa, ma voglio dir la verità, ed è che al primo vederlo pensai a quell'Homére-Hogu, nègre, che fa uno spicco così pittoresco nell'elenco nominativo della banda di Patron-Minette, nei Miserabili. Mi fu detto poi ch'era un collaboratore della Petite Presse, pieno d'ingegno, e molto stimato. In un angolo c'era un gruppo di giovani che discorrevano fitto, ridendo elegantemente: belle fronti, occhi vivi, capigliature poetiche, atteggiamenti d'attori corretti; da cui argomentai che fossero dei così detti Parnassiens, poeti dell'arte per l'arte, o meglio del verso pel verso, che

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Argomenti: sguardo fisso,    bel giovane,    secondo salotto,    tanto animo,    osservatore fine

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