Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 32

Testo di pubblico dominio

che studi. Vado a parecchie prime rappresentazioni. Domani sera vado alla Gaité. Studio la platea, i palchi, il palcoscenico; osservo tutti i più minuti particolari della vita delle scene; assisto alla toeletta d'un'attrice, e tornato a casa, abbozzo la mia descrizione. Una cocotte va alle corse, a un grand prix. Ecco un'altra descrizione che metterò nel romanzo, a una conveniente distanza dalla prima. Vado a studiare un grand prix. Una cocotte frequenta i gran restaurants. Mi metto a studiare i gran restaurants. Frequento quei luoghi per qualche tempo. Osservo, interrogo, noto, indovino. E così avanti fin che non abbia studiato tutti gli aspetti di quella parte di mondo in cui suole agitarsi la vita d'una donna di quella fatta. Dopo due o tre mesi di questo studio, mi sono impadronito di quella maniera di vita: la vedo, la sento, la vivo nella mia testa, per modo che son sicuro di dare il mio romanzo il colore e il profumo proprio di quel mondo. Oltrecchè, vivendo per qualche tempo, come ho fatto, in quella cerchia sociale, ho conosciute delle persone che vi appartengono, ho inteso raccontare dei fatti veri, so quello che vi suole accadere, ho imparato il linguaggio che vi si parla, ho in capo una quantità di tipi, di scene, di frammenti di dialogo, di episodi d'avvenimenti, che formano come un romanzo confuso di mille pezzi staccati ed informi. Allora mi riman da fare quello che per me è più difficile: legare con un solo filo, alla meglio, tutte quelle reminiscenze e tutte quelle impressioni sparse. È un lavoro quasi sempre lungo. Ma io mi ci metto flemmaticamente, e invece d'adoperarci l'immaginazione, ci adopero la logica. Ragiono tra me, e scrivo i miei soliloqui, parola per parola, tali e quali mi vengono, in modo che, letti da un altro, parrebbero una stranissima cosa. Il tale fa questo. Che cosa nasce solitamente da un fatto di questa natura? Quest'altro fatto, Quest'altro fatto è tale che possa interessare quell'altra persona? Certamente. È dunque logico che quest'altra persona reagisca in quest'altra maniera, E allora può intervenire un nuovo personaggio; quel tale, per esempio, che ho conosciuto in quel tal luogo, quella tal sera. Cerco di ogni più piccolo avvenimento le conseguenze immediate; quello che deriva logicamente, naturalmente, inevitabilmente dal carattere e dalla situazione dei miei personaggi. Faccio il lavoro d'un commissario di polizia che da qualche indizio voglia riuscire a scoprire gli autori d'un delitto misterioso. Incontro nondimeno, assai sovente, molte difficoltà. Alle volte non ci sono più che due sottilissimi fili da annodare, una conseguenza semplicissima da dedurre, e non ci riesco, e mi affatico e m'inquieto inutilmente. Allora smetto di pensarci, perchè so che è tempo perduto. Passano due, tre, quattro giorni. Una bella mattina, finalmente, mentre fo colazione e penso ad altro, tutto a un tratto i due fili si riannodano, la conseguenza è trovata, tutte le difficoltà sono sciolte. Allora un torrente di luce scorre su tutto il romanzo. Un flot de lumière coule sur tout le roman. Vedo tutto e tutto è fatto. Riacquisto la mia serenità, son sicuro del fatto mio, non mi resta più a fare che la parte tutta piacevole del mio lavoro. E mi ci metto tranquillamente, metodicamente, coll'orario alla mano, come un muratore. Scrivo ogni giorno quel tanto; tre pagine di stampa; non una riga di più, e la mattina solamente. Scrivo quasi senza correggere perchè son mesi che rumino tutto, e appena scritto, metto le pagine da parte, e non le rivedo più che stampate. E posso calcolare infallibilmente il giorno che finirò. Ho impiegato sei mesi a scrivere Une page d'Amour; un anno a scriver l'Assommoir. —L'Assommoir,—soggiunse poi, dando un colpo della mano aperta sul manico del pugnale,—è stato la mia tortura. È quello che m'ha fatto penare di più per mettere insieme i pochissimi fatti su cui si regge. Avevo in mente di fare un romanzo sull'alcoolismo. Non sapevo altro. Avevo preso un monte di note sugli effetti dell'abuso dei liquori. Avevo fissato di far morire un beone della morte di cui muore Coupeau. Non sapevo però chi sarebbe stato la vittima, e anche prima di cercarla, andai all'ospedale di Sant'Anna a studiare la malattia e la morte, come un medico. Poi assegnai a Gervaise il mestiere di lavandaia, e pensai subito a quella descrizione del lavatoio che misi nel romanzo; che è la descrizione d'un lavatoio vero, in cui passai molte ore. Poi, senza saper nulla del Goujet, che immaginai in seguito, pensai di valermi dei ricordi d'un'officina di fabbro ferraio, dove avevo passato delle mezze giornate da ragazzo, e che è accennata nei Contes à Ninon. Così, prima d'aver fatto la tela del romanzo, avevo già concepita la descrizione di un pranzo nella bottega di Gervaise, e quella della visita al museo del Louvre. Avevo già studiate le mie bettole, l'Assommoir di père Colombe, le botteghe, l'Hôtel Boncoeur, ogni cosa. Quando tutto il rimanente fu predisposto, cominciai a occuparmi di quello che doveva accadere; e feci questo ragionamento, scrivendolo. Gervaise viene a Parigi con Lantier, suo amante. Che cosa seguirà? Lantier è un pessimo soggetto: la pianta. E poi? Lo credereste che mi sono intoppato qui, e che non andai più avanti per vari giorni? Dopo vari giorni feci un altro passo. Gervaise è giovane; è naturale che si rimariti; si rimarita, sposa un operaio, Coupeau. Ecco quello che morirà a Sant'Anna. Ma qui rimasi in asso da capo. Per mettere a posto i personaggi e le scene che avevo in mente, per dare un'ossatura qualunque al romanzo, mi occorreva ancora un fatto, uno solo, che facesse nodo coi due precedenti. Questi tre soli fatti mi bastavano; il rimanente era tutto trovato, preparato, e come già scritto per disteso nella mia mente. Ma questo terzo fatto non riuscivo a raccappezzarlo. Passai varii giorni agitato e scontento. Una mattina, improvvisamene, mi balena un'idea. Lantier ritrova Gervaise,—fa amicizia con Coupeau,—s'installa in casa sua…. et alors il s'établit un ménage a trois, comme j'en ai vu plusieurs; e ne segue la rovina. Respirai. Il romanzo era fatto. Detto questo, aperse un cassetto, prese un fascio di manoscritti e me li mise sotto gli occhi. Erano i primi studi dell'Assommoir, in tanti foglietti volanti. Sui primi fogli c'era uno schizzo dei personaggi: appunti sulla persona, sul temperamento, sull'indole. Ci trovai lo «specchio caratteristico» di Gervaise, di Coupeau, di maman Coupeau, dei Lorilleux, dei Boche, di Goujet, di madame Lérat: c'eran tutti. Parevano note d'un registro di questura, scritte in linguaggio laconico, e liberissimo, come quello del romanzo, e interpolate di brevi ragionamenti, come:—Nato così, educato così; si porterà in questo modo.—In un luogo c'era scritto:—E che può far altro una canaglia di questa specie?—M'è rimasto impresso, fra gli altri, lo schizzo di Lantier, che era un filza d'aggettivi, che formavano una gradazione crescente d'ingiurie:—grossier, sensuel, brutal, egoiste, polisson.—In alcuni punti c'era detto:—servirsi del tale—una persona conosciuta dall'autore. Tutto scritto in caratteri grossi e chiari, e con ordine. Poi mi caddero sotto gli occhi gli schizzi dei luoghi, fatti a penna, accuratamente, come un disegno d'ingegnere. Ce n'era un mucchio: tutto l'Assommoir disegnato: le strade del quartiere in cui si svolge il romanzo, colle cantonate, e coll'indicazione delle botteghe; i zig-zag che faceva Gervaise per scansare i creditori; le scappate domenicali di Nana; le pellegrinazioni della comitiva dei briaconi di bastringue in bastringue e di bousingot in bousingot; l'ospedale e il macello, fra cui andava e veniva, in quella terribile sera, la povera stiratrice straziata dalla fame. La gran casa del Marescot era tracciata minutissimamente; tutto l'ultimo piano; i pianerottoli, le finestre, lo stambugio del becchino, la buca di père Bru, tutti quei corridori lugubri, in cui si

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Argomenti: piccolo avvenimento

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