Ricordi di Parigi di Edmondo De Amicis pagina 15

Testo di pubblico dominio

sale ch'io avevo attraversate di corsa, quanta parte dell'anima loro c'era in quelle tele e in quei marmi innumerevoli, quante ispirazioni d'amanti e di spose, quante veglie, quante meditazioni, quanti pennelli spezzati, quanto sangue di cuori trafitti, quante reminiscenze d'avventure e di pellegrinazioni lontane, che vasta epopea d'amori, di dolori, di trionfi e di miserie; e quanti eran già calati nel sepolcro, consunti dalla febbre tremenda dell'arte, e quanti altri vi sarebbero discesi ancor giovani e pieni di speranze; e che immenso tesoro d'immagini di sentimenti e di idee portavan via da quel luogo milioni di visitatori di tutta la terra; e pensando a queste cose, collo sguardo rivolto a quella lunga fila di padiglioni, mi sentii compreso improvvisamente d'un sentimento di affetto e di gratitudine così vivo, che se in quel momento mi passava a tiro un pittore, il primo venuto, gli saltavo al collo com'è vero il sole. L'ultima sala delle belle arti mette nella galleria del lavoro. Non si può immaginare un più strano cambiamento di scena. Qui tutto è agitazione e strepito. Si vedono le piccole industrie all'opera. C'è un gran numero di banchi circolari e quadrati, che servono insieme d'officina e di bottega, dove lavorano continuamente uomini, donne e ragazzi, in mezzo a una folla di curiosi, che formano una catena non interrotta di grandi anelli neri mobilissimi da una estremità all'altra dell'immensa sala. Qui si lavora l'oro, la tartaruga, l'avorio, la madreperla, si fabbricano gli oggetti di filigrana, si fanno i ventagli, le spazzole, i portamonete, gli orologi. C'è, fra gli altri, un gruppo d'operaie che fabbricano le bambole con una rapidità di prestigiatrici, e altre che fanno i fiori di stoffa, di smalto, di penne d'uccelli del tropico, con una sveltezza ed un garbo, che par di vederli sbocciare fra le loro dita. In altre parti si tesse la seta, si dipinge la porcellana, si lavora il rame, si fa la guttaperca, si fabbricano le pipe di schiuma. In un angolo si vedono le pazienti manine normanne lavorare la trina. Nel mezzo della sala si taglia il diamante. Qui piovono i biglietti di visita, là le spille, più in là i bottoni; da una parte si fanno le treccie e i chignons, dall'altra i canestrini e le scatolette di paglia. Un gruppo d'indiani, col capo coperto di enormi turbanti variopinti, lavorano agli scialli. È una lunghissima fila di piccoli fornelli, di macchinette vibranti, di fiammelle di gaz, di teste chine, di mani in moto, di gente che interroga e di gente che spiega; un chiacchierio, un affaccendamento allegro, un lavorio accelerato e sonoro, che mette la smania di far qualche cosa. E la vôlta altissima ripercuote rumorosamente i sibili acuti che paiono grida di gioia infantile, il picchiettio cadenzato di cento martelli, lo stridore delle lime e delle seghe e mille tintinni cristallini e metallici, e il ronzìo sordo della moltitudine che passa a processioni, a turbe, a gruppi, come un esercito sbandato, per riversarsi nei giardini esterni o nelle gallerie delle macchine. Qui lo spettacolo è degno d'un'ode di Vittor Hugo. Sul primo momento par di essere sotto una delle immense tettoie arcate delle stazioni di Londra. Son due gallerie lunghe come il Campo di Marte, larghe novanta uomini di fronte, e piene di luce, nelle quali mille macchine enormi, un esercito di ciclopi di metallo, minacciosi e splendidi, alzano le teste, le braccia, le mazze, le lame, fitte e intricate, fino alle vôlte altissime, producendo il fragore d'una battaglia. Una immensa trasformazione di cose si compie da tutte le parti. Il foglio di carta esce in buste da lettera, lo spago in corde, il bronzo in medaglie, il filo di ottone in spille, il filo di lana in calze, il pezzo di legno in frammenti di mobili; la ricamatrice svizzera ricama con trecento aghi, il papirografo inglese riproduce trecento esemplari d'un manoscritto, la macchina dei saponi taglia i cubi, gl'involta e li pesa; la macchina del Marinoni mette fuori i giornali piegati; le gigantesche filatrici di Birmingham e di Manchester lavorano accanto alle macchine d'estrazione delle miniere; la grande macchina da ghiaccio getta il suo furioso soffio gelato in mezzo agli aliti di fuoco delle macchine da gaz; altre lavorano i diamanti, altre lacerano e torcono il metallo come una pasta, altre lavano, raffinano, travasano, disegnano, dipingono, scrivono; in ogni parte freme una vita meravigliosa ed orribile di mostri di cento bocche e di cento mani, che irrita i nervi, introna le orecchie e confonde l'immaginazione. Qua e là si vede la materia informe sparire nel ventre tenebroso di quei colossi, riapparire in alto, dopo qualche momento, già mezzo lavorata, e come portata in trionfo, e poi rinascondersi, ricacciata giù sdegnosamente a subire le ultime violenze…. Qui lavorano delle braccia di gigante, là delle dita di fata. In una parte il lavoro si presenta sotto l'aspetto d'una distruzione furiosa, fra denti enormi di ferro e artigli d'acciaio, che stritolano e sbranano con un fracasso d'inferno, in cui si sente un suono confuso di lamenti umani; in mezzo a un roteggio intricato, vertiginoso, feroce, che sbricciolerebbe un titano come un gingillo di vetro. In un'altra parte il mostro mansueto accarezza la materia prigioniera, la palleggia, la lambisce, la liscia, delicatamente, lentamente, in silenzio, come se facesse per gioco. Altre macchine colossali, come quelle da maglie, fanno movimenti strani e misteriosi, d'apparenza quasi umana, con una certa grazia languida d'ondulazioni femminee; che ispirano un senso inesplicabile di ripugnanza, come se fossero esseri viventi dei quali non sì riuscisse ad afferrare la forma. Fra le grandi membra di tutti questi lavoratori smisurati, s'agita come una vita segreta un indescrivibile lavorio di rotine che sembrano immobili, di seghe che paion fili, di congegni delicatissimi e quasi invisibili, che vibrano, tremano, trepidano, e ingigantiscono ancora, col paragone della loro umile piccolezza, le ruote enormi, le cerniere colossali, le caldaie titaniche, le correggie spropositate, le gru, gli stantuffi, i tubi mostruosi, che si slanciano in alto come colonne monumentali, e si succedono in una fila senza fine, presentando l'aspetto di non so che bizzarra e deforme città di metallo, in cui si dibatta fra le catene una legione di dannati o di pazzi. Ma anche l'uomo lavora; un gran numero di donne cuciscono colle macchinette; intorno alle grandi macchine vigilano degli operai, e meccanici e artefici di tutti i paesi, vestiti trascuratamente, osservano, notano, si caccian per tutto, fra gli stantuffi e le ruote, a rischio della vita; fra i quali si vedono qua e là delle faccie scarne e pallide, ma piene di vita, su cui lampeggia una volontà di ferro e un'ambizione implacabile. Chi sa! operai oscuri oggi, forse inventori gloriosi domani. Tutta l'enorme galleria è piena dell'immenso affanno del lavoro. E sulle prime quell'agitazione affatica e rattrista. Ma a poco a poco, facendovi l'udito e fermandovi il pensiero, in quel fragore pauroso di fischi, di sbuffi, di scoppii, di scricchiolamenti, di gemiti e d'ululati, si sente la voce profonda delle moltitudini, le grida eccitatrici della lotta e l'urrà formidabile della vittoria umana. L'uomo che, entrando, s'era sentito schiacciato, riacquista la coscienza di sè, e contempla quell'immensa forza, suscitata e disciplinata dal suo pensiero, con un fremito d'alterezza, in cui tutto l'essere suo si rinvigorisce e s'innalza. E quello smisurato arsenale di armi pacifiche, le bandiere grandi come vele di nave che spenzolano dalla vôlta, gonfiate dall'aria commossa dalle ruote innumerevoli, quei monumenti selvaggi di cordami e di reti, le piramidi delle zappe che servirono a dissodare i deserti del nuovo emisfero, i trofei degli strumenti per la pesca dei grandi cetacei dei mari polari, i tronchi giganteschi delle foreste vergini, le armature colossali dei palombari, le torri di merci, e i

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Argomenti: grande macchina,    immenso tesoro,    strano cambiamento,    furioso soffio,    materia informe

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