Il ponte del Paradiso di Anton Giulio Barrili pagina 41

Testo di pubblico dominio

Oramai siamo alle porte coi sassi. — Davvero? — ripigliò la bella sdegnosa. — E si contenterà di quattro sassi sul parmigiano, il babbo dei sette milioni? — Si è già contentato, mia cara; egli viene soltanto per conoscere il suo futuro genero. Quanto agli interessi, — concluse Raimondo, — avevamo già tutto combinato in questi giorni per lettera. — Livia si morse le labbra a sangue. — Che scioccheria! — gridò, esasperata. — Ma che ti salta in mente di far dei felici a loro malgrado? — A loro malgrado? — ripetè Raimondo. — Spero di no. Si amano tanto! — Quelle parole, con tanta calma proferite, giunsero aspre al cuore di Livia, acute, cocenti, come un ferro arroventato. Si era rizzata sulla vita, puntando una mano sul letto e con voce stridente gridava: — Si amano, hai detto? Egli ama dunque davvero quella donna? E non la dote? — Ma che dote! Ne abbiamo già discorso una volta, e speravo di averti disingannata su questo proposito. L'ama, ti ripeto; me lo confessava ancor ieri; l'ama di un amor disperato. — E sia; — riprese ella, fremente. — Ma il tuo Aldini non può sposar quella donna. — Perchè? — domandò Raimondo. — Che vincoli lo potrebbero trattenere? — Vincoli, o riguardi da buon cavaliere, dovrebbero esser tutt'uno; — replicò ella concitata. — Ah, vuoi parlare di antiche fiamme? — disse placidamente Raimondo. — Storie del vecchio Testamento, mia cara. — Eh, non tanto vecchio come tu credi. — Raimondo tentennò la testa, in atto d'uomo che fosse ben sicuro del fatto suo. — T'inganni, bella mia, t'inganni; — ribadì, più placido che mai. E per un momento, sappi, m'ero ingannato ancor io. Vedendolo sempre così incerto, così facile a volere e a disvolere, mi era passato per la mente quel che tu dici. E gliene domandai, senza tanti preamboli. Figúrati che a tutta prima voleva dirmi di sì. Ma lo faceva parlare in questo modo l'eterna paura di sembrare un uomo interessato, quel che tu dici un cacciatore di doti. Ma io l'ho confessato per bene, sai. Ha dovuto convenire di esser libero, liberissimo di ogni specie d'impegno; così, su tutti i punti ho avuto il piacere di vincerlo. — Livia guardò suo marito negli occhi. Le parve orribile, con la sua faccia fresca, con la sua asseveranza, con la sua serenità imperturbabile, e più coi suoi canti di vittoria. — Dunque, tu credi che non abbia vincoli di cuore? — Lo credo fermamente. — Sciocco! — gridò la fiera donna, divorata dalla febbre, divampante di collera. — Apri quello stipo; c'è ancor la chiave nella toppa. — A quelle strane parole Raimondo diede un balzo sulla poltrona ov'era andato a sedersi, presso il letto di sua moglie, fin dal principio del loro colloquio mattutino. — Che è ciò? — diss'egli turbato. — Che cosa ho io da vedere là dentro? — Il tuo disinganno, se credi l'Aldini un fior di cavaliere. Ah, egli si è fatto ben pregare, per ingannare te, per ingannar la tua Margherita, per ingannare la signora Eleonora, il banchiere, e tutti quanti. Non ama la tua puppattola, te lo dico io; non l'ama d'amore. Apri! — Ma, in nome di Dio, che cosa c'è là? — gridò Raimondo, irritato. Attraverso i vapori della febbre, un lampo di ragione era passato per la mente di Livia, rischiarandole il vuoto di un abisso pauroso. Ma ella non era più in tempo per dare indietro; e del resto, a qual pro? Non era meglio finirla una volta, e per sempre, anzichè dibattersi vanamente tra gl'impeti della gelosia furibonda e dell'ira impossente? — C'è un involtino di lettere; — rispose, con voce mezzo soffocata da un tuffo di sangue alla gola; — lettere del tuo cavalleresco Aldini.... ad una signora. — Una nube si era stesa sugli occhi di Raimondo; ma egli trovò ancora tanta forza nell'animo per discacciarla da sè. — E tu, — diss'egli, tentando di dare aspetto di celia ad un modesto rimprovero, — e tu hai fatto da segretaria? — Apri e vedrai; — replicò Livia, impaziente. Raimondo andò barcollante verso lo stipo; girò la chiave, e fece cadere lo sportello a ribalta, mettendo in mostra parecchi scompartimenti di cassettini e ripostigli in bella ordinanza disposti a parecchi ripiani, nei quali il mògano si alternava coll'àcero. — Dove? — chiese egli, non sapendo in qual punto metter la mano. — A sinistra, il cassettino più basso; fallo scorrer fuori; troverai un assicella di legno bianco. Ancora a sinistra, premi col dito; salterà. — Egli aveva macchinalmente obbedito alle istruzioni di Livia. L'assicella, premuta appena, scattò, discoprendo il ripostiglio segreto. In quel ripostiglio giaceva un involtino di carta bianca, legato da una fettuccia color di rosa. Le afferrò, ne sciolse il legaccio, spiegò il foglio, e ne trasse fuori un mazzettino di lettere, che portò nel vano della finestra, sotto la luce scialba di quel mattino invernale. Non avevano soprascritta; certo erano state cambiate le buste. Aperse la prima; gittò un'occhiata sui primi versi dello scritto, e mise un grido; aperse la seconda, lesse ancora poche parole, e il grido di doloroso stupore si mutò in urlo di belva ferita. E ancora aveva sperato, poc'anzi; aveva sperato d'imbattersi in segreti altrui, che poco o punto gli dovesse importar di conoscere. Avrebbe guardato, per contentare sua moglie, strana donna in verità, che di altrui debolezze non si sarebbe dovuta occupare; avrebbe guardato, e non letto. In quella vece.... “Mia Livia„, diceva incominciando la prima lettera che gli era venuta sott'occhio; “Adorata„, diceva la seconda; ed anche quella s'intendeva dal contesto che fosse per lei. — Ah, per l'anima mia! — ruggì, più che non gridasse, il disgraziato Zuliani. E non voleva più veder altro; il demone della gelosia lo mordeva al cuore; lo torturava l'orgoglio ferito; lo straziava l'amore umiliato. Ma se non fosse vero niente? Se gli occhi suoi avessero traveduto? E leggeva ancora, leggeva con rabbia crescente, cercando invano il segno della innocenza di lei, come della sua propria follìa, e cacciandosi sempre più profondo il ferro nella piaga. Apriva buste, e le gittava sul tappeto, scorreva foglietti e cartoncini, che si venivano l'un dopo l'altro spiegazzando tra le sue dita convulse; ruggiva, intanto, con la schiuma alla bocca e gli occhi iniettati di sangue. Così trangugiato sino alla feccia il suo calice di amarezze, stringendo i fogli maledetti nel pugno, tremando tutto di vergogna e di collera, balbettando parole sconnesse, si volse e andò minaccioso verso il letto. Ella era là, poggiata sul gomito, con gli occhi sbarrati, e rideva, rideva d'un riso spasmodico. Ma tosto gettò un grido, e diede in uno scoppio di pianto. — Uccidimi! uccidimi! — mormorò tra i singhiozzi. — Almeno non inganni più te, nè altri, il miserabile! Uccidimi, Raimondo! Amerò la morte, se mi viene da te. — E già Raimondo si scagliava su lei, con gli occhi fiammanti e con le mani levate. — Tu.... disgraziata.... — proruppe, ma non potendo dir altro. Le parole gli gorgogliavano nella strozza; ed anche i pensieri si agitavano confusi nel suo cervello. Guardò la disgraziata, che ansante e palpitante, riarsa dalla febbre, con atto disperato protendeva il collo verso di lui, come implorando la stretta fatale; mise un urlo di fiera, quasi volesse coll'urlo stimolarsi a vendetta; ma le sue mani levate a minaccia non si aggravarono su lei: una forza arcana combatteva i suoi feroci propositi, trascinandolo indietro. — Tu.... disgraziata, — ripetè allora, in uno sforzo supremo, — vivi colla tua onta, se puoi. Non macchierò le mie mani nel sangue di una donna. — Ella si era precipitata dal letto, avvinghiandosi alle ginocchia di lui. — Una disgraziata, sì, hai detto bene; — gemeva. — Uccidimi! uccidimi! — Rispose egli alla preghiera con un gesto sdegnoso; e poco potevano trattenerlo le braccia di lei. Cacciati in tasca i fogli spiegazzati, dei quali aveva già fatto

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Argomenti: voce mezzo,    doloroso stupore

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