Il ponte del Paradiso di Anton Giulio Barrili pagina 13

Testo di pubblico dominio

all'albergo. Ad ogni modo, erano già le cinque suonate quando Filippo si congedò all'ingresso del Danieli, ringraziato con effusione della sua gentil compagnia. E i due commilitoni che lo aspettavano alle quattro? Filippo non ci pensò nè punto nè poco. Esistevano poi davvero, quei due? V. Natura ed arte. Filippo Aldini era rimasto finalmente libero, reso alla solitudine de' suoi pensieri. Solitudine, non quiete; tanto la giornata era stata piena di commozioni per lui. Nè l'agitazione del suo spirito si chetò così presto, che non passasse ancora gran parte della notte insonne. Quante novità! e come, senza volerlo, senza prevederlo, si ritrovava egli lontano in poche ore dai forti propositi in cui gli era parso di non dover vacillare nè allora nè mai! Oh, infine che cosa poteva egli rimproverarsi? Raimondo aveva proposto e disposto, premeditato, combinato e conchiuso. Anche conchiuso? Almeno pareva; e dal modo come il suo prepotente amico aveva condotto fino a quel punto il negozio, era da credere che tutto oramai dovesse andargli a seconda. Che cosa valevano contro quell'audacia fortunata le ragioni di Filippo? Ed erano ragioni? Scrupoli, sì; e parecchi, e d'indole diversa. Ma non appariva in tutto ciò la mano del destino? I fati, fu detto dagli antichi, conducono i volenti, ma ancora e più trascinano i restii; che serve dunque il ribellarsi? Nel fatto, egli era innamorato di Margherita più che non avesse lasciato dire da Raimondo, più che non avesse fin allora voluto confessare a sè stesso. Aveva ricevuto il colpo fatale fin dalla prima volta che la divina fanciulla gli era passata davanti agli occhi, con la mamma e con Raimondo Zuliani, sotto le Procuratie Vecchie, mentre egli stava per uscire dal Florian. L'aveva veduta fermarsi in piazza San Marco, alla solita scena dei colombi, che è il trastullo di tutte le signorine e di tutte le spose novelle appena giunte a Venezia. Alta e snella, con quella massa di capelli nerissimi che facevano spiccar maggiormente il candore perlaceo del viso; nettamente disegnata la flessuosa persona in mezzo a quello sciame di volatori, che le roteavano sul capo, o intorno alle spalle, quali avventandosi alle sue candide mani colme di grano, quali fermando il volo sulle sue braccia, per aspettare la volta loro; pareva una bella ninfa antica per “nuovo miracolo e gentile„ rivivente ai dì nostri, forse indegni di tanta fortuna. E poi, due giorni appresso, quando meno se l'aspettava, le era stato presentato. L'aveva veduta da vicino; era stato costretto ad osservarla. Che grazia ingenua, su quel labbro! che nobiltà serena, in quell'occhio luminoso, sotto le ciglia lunghe più nero e più lampeggiante! in quella linea delicata del profilo purissimo, e in quella compostezza leggiadra della persona! Non più una ninfa antica, ma una dea veramente. Diana, o Minerva? C'era molto dell'una e dell'altra in quella stupenda figura, nel portamento, negli atti, nella espressione del volto. Quei benedetti artisti greci, che avevano foggiate tante divinità femminili, deliberatamente chiusi nella ricerca di un'immagine spiccata, conforme al tipo che dovevano raffigurare, non avevano mai pensato a fondere in uno i due tipi, della bellezza rigidamente casta, sempre un po' acerba, quasi selvaggia, e della bellezza intelligente, più serena e più dolce. Sicuramente, quegli artefici insigni avevano cercate altre espressioni, plasmando altri simulacri di dee; ma tutte semplici, d'un carattere unico: Cerere, ad esempio, faccia contenta di buona massaia, colle pupille a fior di testa e colle palpebre abbassate, come a raccoglier lo sguardo sulle cose della terra; Giunone, maestà consapevole, cogli occhi bovini, che non andavano più là dalle bianche braccia, ond'ella era sempre stata orgogliosa. Quanto a Venere, celeste o terrestre che fosse, uscita appena dalla spuma del mare, o dai lavacri d'un bagno tiepido, era sempre la imagine di una donna, che doveva parlare ai sensi il linguaggio della bellezza; linguaggio possente, a cui non occorrono profondità di pensiero. Quante sottigliezze! Ma gli passavano per la mente; e bisognava dirle, e bisognerà perdonargliele. L'Italiano, finalmente, imbevuto di classico latte, ha queste cose nel sangue. Margherita, agli occhi di Filippo Aldini, era bellezza perfetta di forme, avvivata da un lume ideale che prometteva tesori d'intelligenza elettissima. E l'amava, l'amava, con tutte le potenze dell'anima. L'amore è così; viene quando vuole, e quasi sempre contro il nostro volere. Avete formate le vostre abitudini; il vostro genere di vita, vi paia buono o mediocre, vi si adatta al raziocinio, come alla persona un abito vecchio: stimate di esser calmo, tranquillo, immutabile nei gusti e nelle consuetudini, perchè da un pezzo non avete avvertita la necessità di nessun cambiamento. Ed ecco, passa l'ignota sul marciapiede, arresta con uno sguardo distratto e fuggevole il vostro occhio abbagliato, v'inonda della sua luce, vi penetra del suo fluido magnetico, vi rende di punto in bianco tutt'altro da quello di prima. Buon per voi, se sono in quella imagine vittoriosa uniti i due tipi celesti, Diana e Minerva, casta bellezza e intelletto sovrano. Quantunque, armate come sono ambedue, non c'è da star troppo allegri; fanno due ferite ad un tempo. Nondimeno, se era stato colpito, Filippo Aldini si era anche e presto riavuto del colpo. Gran forza d'animo, la sua; per quanto, a guardarci bene addentro, sentisse di non averne gran merito. Un vecchio proverbio veneziano gli significava per l'appunto il vero della sua condizione: “per forza, San Marco!„. E aveva creduto di dire ogni cosa, di difendersi bene, ripetendo a sè stesso: è troppo ricca. Ma anche questo non senza impeti di ribellione in fondo al cuore. O Dio, perchè una donna è troppo ricca, bisognerà dunque odiarla? Ma c'erano altre ragioni, purtroppo; tanti sono i fili che ci muovono, o che non ci lasciano muovere, ingarbugliandosi maledettamente tra loro, e togliendoci ogni libertà di operare. Dunque, nessun passo oramai, che non fosse per dare indietro. E per fortificarsi in quel duro proposito aveva fatto quest'altro ragionamento, che era una consolazione, in verità, ma una consolazione di dannato. Ebbene, diceva egli, l'ho veduta, l'ho ammirata, l'ho tutta raccolta in me, questa bellezza trionfante; le dedicherò un culto severo nel profondo dell'anima. E vecchio, gelato il sangue nelle vene, ma non offuscata nel cervello la memoria degli anni vissuti, potrò dire a me stesso con legittimo orgoglio: veramente son nato in un felice periodo della vita del mondo, che m'ha fatto contemporaneo d'una bellezza così nobile e cara. Niente più visite, adunque; ma dentro di sè gli pareva di essere diventato un altr'uomo. Avrebbe chiuso il suo cuore, lo avrebbe sigillato come una fiala di essenze odorose. Più nulla avrebbe concesso al mondo circostante, se non la parte più vana di sè; stoicamente chiuso ai profani avrebbe serbato il sacrario dell'anima sua dolorosa. La tristezza, infine, non nuoce; pari a certe acri sostanze, profuma e custodisce tutto ciò che involge e compenetra. Filippo ne aveva già conosciuto qualcheduno, di quegli uomini misteriosi, ai quali è custodia e nutrimento un celato dolore, e che, calmi nell'aspetto, cortesi senza condiscendenze alle altrui leggerezze, interamente padroni di sè medesimi, passano e lasciano sul loro cammino un tenue solco di luce, un bagliore incerto e discreto, che li rivela e li nasconde ad un tempo. Disegno triste e caro, per tanti giorni vagheggiato nell'anima, com'eri ad un tratto svanito? Raimondo voleva; Raimondo aveva mutato ogni cosa, disfatto il faticoso edifizio di Filippo in un soffio. Era il destino, e Filippo si lasciava trascinare dal destino. Aveva egli poi modo di operare diversamente? I due terzi della notte erano stati passati da lui a meditare, a combattere, a fremere di cento scrupoli, di cento rimorsi. Nessuno scampo, nessuna difesa; era il

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