Il ponte del Paradiso di Anton Giulio Barrili pagina 40

Testo di pubblico dominio

mentita le sue medesime lettere, piene di soavissime cose. Bruciando per tutte le membra, non potendo più stare sotto le coltri, si alzò di scatto, mosse alla volta di uno stipo che stava appoggiato contro la parete, lo aperse, e toccato un segreto nel fondo, ne fece uscir fuori un involtino di carta. Erano lì, strette da una fettuccia color di rosa, le lettere di Filippo Aldini. Non molte, per altro; l'amico era assai presto diventato sospettoso e prudente: tanto prudente, che si era fatto promettere da lei di bruciare quegli otto o nove messaggi d'amore. Che bisogno di conservarli, se durava nei cuori il sentimento gentile ond'erano stati ispirati? Così egli diceva. Ma qual donna innamorata, o che tale si creda, accetterà mai il consiglio di distruggere i dolci ricordi del tempo felice, i cari trofei della sua stessa vittoria? Aveva promesso di bruciare, ed aveva conservato; rileggeva allora, e si esaltava sempre più. Scoccarono le cinque, ed ella non aveva anche finito di sfogliar quelle pagine, di notarne i pensieri, di meditarne le frasi, di richiamarsi alla mente le sensazioni che s'erano accompagnate alla prima lettura. E se quell'altro si fosse destato? Se udendo il fruscìo delle carte, od altro lieve rumore nella camera di Livia, e imaginando ch'ella non dormisse più, fosse comparso là, dall'uscio dell'abbigliatolo, e l'avesse colta in sull'atto dell'amorosa lettura? Ebbene, comparisse pure, lo spettro della vendetta. Oramai, ella non reggeva più alla violenza del suo dolore; ogni altro male sarebbe stato un sollievo. Ma egli dormiva ancora, dormiva sempre il sonno del giusto; e Livia ebbe tempo a rileggere, a meditare, a richiamar sensazioni antiche, poi a rifar l'involtino, a rimetterlo nel suo cassetto d'acero, e a richiuder lo stipo. Il freddo la riprendeva, ed ella ritornò a rannicchiarsi nel letto, formando sempre nuovi disegni, non trovando mai nulla che valesse, rabbrividendo, fremendo, gemendo, e nella sua disperazione chiedendo a Dio che la facesse morire. Il mondo le pareva un buio deserto, oramai, se le mancava Filippo, se Filippo doveva appartenere ad un'altra. E vedeva la puppattola sciocca, bianco rosata sotto le ciocche luccicanti dei suoi capelli neri; la vedeva lieta, trionfante, venirle incontro con un sorriso che tradiva lo scherno, per ringraziarla dell'esser venuta ad assistere alla cerimonia nuziale. E a quella, e ad altre feste doveva esser presente la moglie di Raimondo Zuliani, autore glorioso e dissennato della felicità del suo caro Filippo. Ah no, per la collera di Dio, che punisce i traditori, quella felicità non sarebbe giunta a maturanza; no, no, mille volte no; sarebbe morta, piuttosto, ma della collera divina sarebbe stata lei lo strumento. Intanto albeggiava; il cielo si tingeva di un tenue chiaror cenerognolo, sui tetti dei palazzi nereggianti in grandi masse dall'altra riva del Canal Grande. Ed ella ancora non aveva chiuso occhio; e quell'altro seguitava a dormire, più saporitamente che mai. Attraverso gli usci dell'abbigliatolo, Livia ne udiva il respiro largo, profondo, monotono nel suo ritmo uniforme. — E tu dormi, sciocco! — mormorava ella, stizzita. — Così tu hai sempre dormito. — Infatti, che cieca fiducia, in quell'uomo! Quante volte non si era ella trovata sul punto di essere scoperta! Ogni altro si sarebbe insospettito di meno; egli no. Gran fede! gran fede! Si fonda una religione, colla fede, non si governa una donna. Ed era stato lui, a tirare in casa il bel conte; lui a magnificarne ogni atto, ogni parola, ogni gesto; tanto che, sul principio, ella ne era seccata parecchio, avendo perfino accolto nell'anima il sospetto che il suo Raimondo, senza volerne aver l'aria, fosse noiato di lei e chiamasse un aiuto a portar la sua croce. Ma che cosa aveva di tanto miracoloso, quel conte? Era bello, sì, senza eccesso; elegante con misura; scarso di parole, che parevano tutte assai meditate; spesso e volentieri taciturno; sempre in atteggiamento pensoso. Forse per questo lo dicevano un uomo fatale? La uggivano maledettamente, gli uomini fatali. Ma intanto, volere o no, poichè egli era entrato nelle grazie di Raimondo, bisognava studiarlo, ed anche poteva essere utile studiarlo per indovinare con qual segreta malìa avesse egli incantato parecchie bellezze, delle quali in ogni ritrovo più o meno aristocratico si bisbigliavano i nomi. Ahimè, studiare è principio di amare; e quando la signora Livia ebbe molto studiato, si ritrovò pazzamente innamorata del conte Aldini. Un amor pazzo non è sempre, anzi non è quasi mai un amor vero; non è certamente un amore profondo; nasce dal cervello e non dal cuore; l'imaginazione lo ha concepito, il sentimento la ha tenuto a battesimo, secondo l'usanza di tanti padrini, senza calcolar troppo i suoi obblighi. Così travolta dall'impeto della passione, era stata lei la prima cagione del male onde ora aveva a dolersi. Il suo amor proprio non le permetteva di confessarlo; alla peggio, la colpa di tutto andava ascritta a Raimondo. E certo, quel marito non era stato prudente, nè savio: felice tra due diversi affetti dei quali sentiva bisogno il suo gran cuore, non aveva veduto nulla, sospettato di nulla; beatissimo uomo, aveva dormito tra due guanciali, proprio come in quel momento faceva. Ma per allora, a buon conto, l'amico doveva risvegliarsi. “Paron Nane„ aveva bussato due volte all'uscio della sua camera, discretamente la prima, più forte la seconda; finalmente, a rompergli l'alto sonno nella testa, era entrato, portando il vassoio del caffè, secondo l'ordine ricevuto. Livia sentiva dalla sua camera la voce del vecchio servitore che riscuoteva Raimondo, e tosto quella di lui, che destato in soprassalto chiedeva: — È già l'ora? — Sono le sette, signor padrone; — rispondeva quell'altro. — Non mi ha ordinato di svegliarla ad ogni costo? — Sì, sta bene, sta bene; versate il caffè, paron Nane, — replicava Raimondo. — Ma in verità, dormivo così di gusto! — Le sette scoccavano infatti all'orologio dell'anticamera. Le sette; e Livia aveva passata tutta la notte insonne! E il sangue le ribolliva nelle arterie, pulsando forte, martellando alle tempie. Già Raimondo era sceso dal letto, ed ella lo sentiva andare e venire nella fretta del vestirsi, poi richiamare il servitore e ordinargli che la gondola fosse pronta per le otto alla scalinata del palazzo. Un'ora, dunque, un'ora appena doveva passare, ed egli sarebbe uscito, sarebbe corso dove lo chiamava il suo matto desiderio di far la gente felice. Ella, intanto, era fuori di sè. Tremassero i felici, ai quali Raimondo dedicava le sue cure amorevoli: ella sentiva una voglia furibonda di balzare dal letto, di fare un chiasso, di romperla con ogni riguardo, come con ogni paura. Non ne poteva più, non ne poteva più; o sfogarsi, o morir soffocata. Raimondo era entrato nell'abbigliatoio; Raimondo veniva ad aprir l'uscio della camera di lei; Raimondo appariva sulla soglia. — Livia, dormi? — chiedeva egli a bassa voce. — Che! — rispose lei, coll'accento sdegnoso che Raimondo conosceva così bene, e a cui così bene, se non volentieri, si adattava da un pezzo. — Ma si può egli sapere dove corri a quest'ora? — Non corro, come vedi; vengo a darti il buon giorno. Per uscire c'è tempo ancora; ma volevo esser pronto: il sonnellino d'oro è così traditore, che guai, a fidarcisi! Debbo trovarmi alla stazione intorno alle nove. — Ella ebbe al cuore un sussulto violento. Non si era dunque ingannata; Raimondo muoveva ad incontrare il Cantelli. Ma volle averne l'intiero da lui. — Alla stazione! — ripetè, simulando un alto stupore. — E perchè? — Sai, arriva questa mattina l'amico Anselmo; — rispose Raimondo. Non le diceva nulla ch'ella già non sapesse: pure il sentirselo confermare da lui, le diede una stretta dolorosa. — Ah! — esclamò con accento sardonico. — Sempre per quel matrimonio! — Ma sì; — diss'egli, stropicciandosi le mani. —

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Argomenti: vecchio servitore,    sentimento gentile,    lieve rumore,    autore glorioso,    matto desiderio

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