Sodoma e Gomorra di Docteur Jaf pagina 6

Testo di pubblico dominio

«Sarfeïa, colla corona in mano, provoca alcune vili cortigiane, e vince il premio offerto alla lubricità. A sua volta rende omaggio agli ardori di Medullina; quella che trionfa in tale conflitto è proclamata la più nobile. Nulla si fa per finzione: le attitudini sono di una tale verità che infiammerebbero il vecchio Priamo e l'infermo Nestore. Diggià gli esaltati desiderii vogliono essere assopiti; diggià ogni donna riconosce che non stringe tra le braccia se non una donna impotente, e l'antro echeggia di questi unanimi gridi: Introducete gli uomini, la dea lo permette: il mio amante dorme forse? che lo si svegli subito... se il mio amante non viene, mi abbandono agli schiavi, e se di schiavi non ve ne sono, che si apporti un asino... subito!!!» I libertini ricercavano a qualunque prezzo i primi fiori delle vergini, ciò che costituiva un lucroso commercio pei lenoni, che arrivavano perfino a vendere ragazzine dai 7 ad 8 anni, per essere più certi della condizione di una mercanzia sì fragile e sì rara. La gelosia, come l'amore, sembrava passata di moda, e si vivea troppo in fretta per consacrare interi anni ad una sola passione; e perciò che si trovano in tale epoca poeti disposti a cantare il libertinaggio. E che Marziale dice francamente: «Nessuna pagina del mio libro è casta, e quindi quelli che mi leggono sono giovani e ragazze dai facili costumi, vecchie che hanno bisogno di solletico. Ho scritto per me, dice alle venerabili matrone che leggevano le sue opere di nascosto, e che l'accusavano di non scrivere per le donne oneste, ho scritto per me, pel ginnasio, per le terme: gli studiosi sono da questa parte, ritiratevi dunque, noi ci svestiamo; andate via se non volete veder uomini nudi! Qui, dopo aver bevuto, Tersicore, coronata di rose, abdica il Pudore, e nell'ebrezza, non sapendo più cosa dire, invoca ad alta voce ciò che Venere trionfante riceve nel suo tempio al mese di agosto, e ciò che il villico mette in sentinella in mezzo al suo giardino, quello che la vergine casta non può guardare se non mettendosi la mano sugli occhi.» ed allargando le dita, aggiungiamo noi. Fa il ritratto di Lesbia che ama la pubblicità, i piaceri segreti non hanno alcun sapore per lei, perciò la sua porta non è mai chiusa, nè guardata, quando ella si abbandona alla lubricità. Vorrebbe che tutta Roma la guardasse in quei momenti, e non si turba nè si scomoda se qualcuno entra, giacchè il testimone del suo libertinaggio le procura più godimento che il suo amante stesso. La sua più grande felicità è di essere sorpresa in flagrante. Lacamè si fa servire al bagno da uno schiavo di cui il sesso è decentemente nascosto da una cintura di cuoio nero, mentre giovani e vecchi si bagnavano nudi con essa; perciò Marziale si vede autorizzato a chiederle: «Ma che, forse il tuo schiavo è l'unico che sia veramente uomo in fra tanti?». Ligella spela i suoi avvizziti incanti: «se ti resta un qualunque pudore, le grida Marziale, cessa di strappar la barba ad un leone morto». La maggior parte delle cortigiane non erano Greche, esse non venivano da molto lontano, e molte ne uscivano dai sobborghi di Roma, dove le madri le avevano vendute alla crapula. Nondimeno si ricercavano le donne Greche, e si pagavano più care delle altre, ed è perciò che quasi tutte le cortigiane si dicevano di tal paese. Una cortigiana, certa Lelia, avéva mandato a memoria qualche parola greca, che ripeteva continuamente con un accento romano; Marziale le dice: «Quantunque tu non sii nata nè a Efeso, nè a Rodi, nè a Metilene, ma in una casa dei sobborghi patrizii, quantunque tua madre, che mai non conobbe cosa volesse dir lavarsi, sia nata presso gli Etruschi dalla carnagione olivastra, e che quel rustico di tuo padre sia originario della campagna di Aricia, tu impieghi a qualunque proposito questo dolci espressioni greche: vita mia, anima mia! Come, tu cittadina di Ersbia e di Egeria osi parlare così!? Tu non sai come fare per parlare il linguaggio di una pudica matrona: ma non dici nulla di più tenero quando i desiderii ti tormentano? Va, Lelia, quand'anche giungesti a saper a mente Corinto, non sarai mai Lais!». Ecco uno dei più curiosi epigrammi di Marziale, egli si rivolge a Galla: «Il tuo viso è tale che nessuna donna oserebbe dirne male, tu non hai neppure una macchia sul corpo. Perciò ti meravigli senza dubbio di non aver mai ispirata alcuna passione, e di non veder mai ritornare a te l'uomo col quale hai dormito una notte. Ciò dipende dal fatto che tu hai un enorme difetto. Ogni volta che io ti avvicino per fare all'amore e che agitiamo i nostri corpi voluttuosamente confusi, la tua vagina fa rumore e tu taci. Piacesse al cielo che tu parlassi e quell'organo tacesse! Giacchè il suo mormorio non mi lusinga affatto; preferisco il rumor del tuo deretano, il quale almeno ha una certa utilità ed allo stesso tempo provoca ilarità». Fu sotto gl'imperatori, per l'influenza dei loro costumi depravati, pei loro esempii e le loro malsane istigazioni, che la società romana fece spaventevoli progressi nel vizio, il quale finì di disorganizzarla. Giovenale esclamava allora: «Il vizio è al suo colmo: Ecco disgraziati a qual punto di decadenza siamo giunti! Abbiamo, è vero, portate le nostre armi fino ai confini dell'Iberia, abbiamo anche recentemente sottomessi gli Orcadi e la Brettagna, dove le notti sono sì corte, ma quello che fa il popolo vincitore nella città eterna, non lo fanno i popoli vinti!» Infatti quello che restava di buoni costumi a Roma fu perduto dal giorno in cui il capo dello Stato finì di rispettarlo. Giulio Cesare, questo grand'uomo di cui il genio innalzò a tanta potenza le armi romane, la politica e la legislatura; Giulio Cesare fu il primo ad offrire al popolo romano l'indecente esempio della propria depravazione. Tutti gli storici del tempo sono d'accordo nel dire che egli era portato molto verso i piaceri sensuali e nulla risparmiava per soddisfarli. Sedusse un numero infinito di donne per bene. Non rispettava nè il suo talamo, nè quello degli altri. Questo dittatore volle fare una legge che gli permetteva di godersi tutte le matrone che gli andavano a genio, sotto pretesto di moltiplicare gli uomini della sua illustre razza! Nessuno ignora lo scandaloso festino di Augusto e dei suoi cinque compagni di orgia con sei rispettabili matrone romane. Vestiti da dei e da dee imitavano gl'impudicissimi costumi olimpici descritti nelle favole. Augusto commise un incesto con la propria figlia, dal quale nacque la madre di Galigola. Marcantonio parlando dei tirannici costumi di Augusto, dice che in un festino, fece passare dalla sala da pranzo nella camera vicina, la moglie di un console, pur trovandosi il marito fra gl'invitati, e quando ella ritornò con Augusto, i banchettanti avevano avuto il tempo di vuotar più di una coppa in onore di Cesare, e la matrona aveva le orecchie rosse ed i capelli in disordine. Tutti lo notarono; solo il marito non vi fece caso. Le orgie di Augusto paragonate a quelle di Tiberio erano ingenue ed innocenti. Questi commise delitti che nessuno prima di lui aveva osato immaginare. A Caprea, dove soggiornava abitualmente, fece costruire una grande camera, sede delle più secrete sregolatezze. Là una moltitudine di giovanette e di giovanetti diretti dagli inventori di una mostruosa prostituzione, formavano una triplice catena e mutualmente e carnalmente allacciati, gli passavano dinnanzi per rianimare i suoi sensi esauriti. Sua moglie accettava volentieri tutte le dichiarazioni di amore che le venivan fatte. Riceveva i suoi amanti in folla e correva con essi pazzamente per le vie della città. La ragione e le leggi del pudore non si fecero mai sentire in casa di questa depravata principessa. Galigola, ancor men riservato di Tiberio, che cercava di imitare, fece conoscere pubblicamente i suoi infami amori con Marco Lepidus. Egli cercò sempre lo straordinario ed il mostruoso. Agrippina visse con suo

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