Sodoma e Gomorra di Docteur Jaf pagina 3

Testo di pubblico dominio

avorio, trasalir labbra di corallo, scavar rosee fossette in fra le guance e fremer gole di alabastro. Non appena l'etera si era fatta notare da un uomo, gli mandava mazzolini di fiori, che ella aveva portati, frutta nelle quali i suoi denti avevano morso, e gli faceva dire da messaggeri che ella non dormiva più, non mangiava più e che sospirava incessantemente. «Correva a baciarlo quando giungeva, dice Luciano, lo pregava di restare quando voleva partire; faceva le finte di non far toilette che per apparirgli sempre più bella, e sapeva alternar sapientemente le lagrime al disprezzo, conquistando col soave incanto della sua voce.» Fra le cortigiane era frequentissimo l'amore lesbico. Questo amore che la Grecia non schiacciava col disdegno e che non era nemmeno punito col rigor delle leggi, nè cogli anatemi della religione. Le sonatrici di flauto cantavano, danzavano, facevano le mime, erano belle, ben fatte e compiacenti. Di esse Aristagoras, dice: «Vi ho precedentemente discorso di belle cortigiane ballerine, e non aggiungerò altro, trascurando puranco le sonatrici di flauto che, appena nubili, snervavano gli uomini più robusti e si facevano pagare profumatamente.» Simili donne avevano tale sapienza nell'arte delle carezze da esaurire Ercole stesso. I libertini che avevano sperimentato le raffinatezze della lussuria asiatica, non potevano più farne a meno e, alla fine del pasto, quando tutti i sensi erano eccitati dal canto e dai suoni, giungevano a tali eccessi di furore erotico, da precipitarsi gli uni sugli altri, sopraccaricandosi di colpi, fino a che la vittoria decideva a chi la suonatrice di flauto dovesse appartenere. Queste donne, esercitate di buon'ora nell'arte della voluttà, arrivavano a disordini tali che l'immaginazione trascinava tutti i sensi. L'intera loro vita era come una perpetua lotta di lascivia, come uno studio assiduo della bellezza fisica; a furia di vedere la loro propria nudità e di paragonarla con quella delle loro compagne, vi pigliavano tal gusto, e si creavano bizzarri godimenti, tanto più ardenti, in quanto che in essi non avevano punto il concorso dei loro amanti, i quali quasi sempre le lasciavano fredde ed insensibili. Le passioni misteriose che si accendevano così nelle auletridi erano violente, terribili, gelose, implacabili. Tali depravati costumi erano talmente diffusi fra le donne, che parecchie in fra di loro si riunivano spesso nei festini dove nessun uomo era ammesso e là si corrompevano sotto l'invocazione di Venere. Alcifrone ci ha conservato il quadro di una di queste feste notturne; è l'auletride Megara che scrive all'etera Bacchis e le racconta i dettagli di un magnifico festino al quale le sue amiche Phessala, Phryallis, Myrrhine, Philumene, Chrysis et Euxippe assistevano, metà etere, metà sonatrici di flauto. «Che pasto delizioso! il solo racconto ti farà rimpiangere di non avervi assistito; quante canzoni! e che orgia! se ne son vuotate coppe dalla sera all'aurora! Vi erano profumi, corone, i vini più squisiti, le più delicate vivande! Un boschetto ombreggiato da lauri fu la sala del festino. Non vi sarebbe mancato nulla se anche tu vi fossi stata. Appena riunite si accese una disputa che venne ad aumentare i nostri piaceri. Si trattava di decidere se fosse più ricca Phryallis o Mirchina in quei tesori di bellezza che fecero dare a Venere il nome di Callipige. Mirchina si sciolse la cintura, la tunica che indossava era trasparente, si girò; e noi avemmo l'illusione di vedere i cigli a traverso il cristallo; allora impresse alle sue reni un movimento precipitato, guardando all'indietro, e sorrideva allo sviluppo delle sue forme voluttuose che ella agitava. Allora, come se Venere stessa avesse ricevuto quest'omaggio, si mise a mormorare non sò qual dolce nenia che mi commuove tuttora. «Nondimeno Phryallis non si dà per vinta, s'avanza e grida:—Io non combatto punto dietro un velo: voglio comparire innanzi a voi come in un esercizio ginnico; questa battaglia non ammette maschere.—Ciò detto, fa cadere fino ai piedi la tunica ed inclinando le sue rivali bellezze:—Contempla, o Mirchina, questa caduta di reni, la bianchezza e la finezza della mia pelle e queste foglie di rose che la mano della voluttà ha come sparpagliate sui miei graziosi contorni, disegnati senza grettezza e senza esagerazione. Nel loro gioco rapido; nelle loro amabili convulsioni, questi emisferi non tremolano come i tuoi, il loro movimento somiglia al dolce gemito dell'onda.—Appena finito di pronunziar queste parole raddoppiò i lascivi increspamenti con tanta agilità, che un generale applauso le decretò gli onori del trionfo. «Si fecero altre scommesse di bellezza, nelle quali risultò vincitore il petto sodo e liscio di Philumena. «Tutta la notte trascorse in simili piaceri e la terminammo con imprecazioni contro i nostri amanti e con una preghiera a Venere che scongiurammo, perchè ci procurasse ogni giorno nuovi adoratori, giacchè l'inedito è il più stuzzicante incanto dell'amore. Eravamo tutte ebbre quando ci separammo». Le etere ad Atene dominarono ed ecclissarono le donne oneste, avevano clienti ed ammiratori, esercitavano un'influenza continua sugli avvenimenti politici, e sugli uomini che vi pigliavano parte. Fu sotto Pericle e pel suo esempio che gli Ateniesi si appassionarono per queste sirene e per queste maghe che fecero molto male ai costumi e moltissimo alle lettere ed alle arti. Durante questo periodo di tempo si può dire che non vi furono altre donne in Grecia e che le vergini e le matrone si tennero nascoste nei misteri del gineceo domestico, mentre le etere s'impadronirono del teatro e della pubblica piazza. L'Egitto, la Fenicia, la Grecia, colonizzarono la Sicilia e l'Italia, stabilendovi le loro religioni, i loro costumi, e naturalmente i loro vizi. Le pitture dei vasi etruschi ci dimostrano appunto a che era giunta la raffinata corruzione di questi popoli aborigeni, schiavi ciechi e grossolani dei loro vizii e delle loro passioni. Da mille prove su questi vasi dipinti si vede come la lubricità di questo popolo non conoscesse alcun freno nè sociale nè religioso. La bestialità e la pederastia erano i vizii più comuni, e queste vituperevoli ingenuità, familiari a tutte le età e a tutti i gradi sociali, non avevano altri freni se non alcune cerimonie di espiazione e di purificazione che ne sospendevano talvolta la libera pratica. Come presso tutti i popoli antichi, la promiscuità dei sessi rendeva omaggio alle leggi di natura, e la donna sottomessa alle brutali aspirazioni dell'uomo, non era se non il paziente istrumento del godimento; doveva far sempre tacere la voce della sua scelta, giacchè apparteneva a chiunque avesse la forza di possederla. La conformazione fisica di questi selvaggi avi dei Romani giustifica d'altronde tutto quello che si poteva aspettare dalla loro impudica sensualità; avevano le parti virili analoghe a quelle del toro, rassomigliavano ai becchi. In queste razze così naturalmente portate all'amore carnale, il vizio si associava, senza dubbio, a tutti gli atti della vita civile e religiosa. Ai primi tempi della fondazione di Roma furono stabilite feste, dette Lupercali, in onore del dio Pane, nelle quali i preti percorrevano le vie completamente nudi, ed armati di tirsi coi quali battevano i passanti. Più tardi si ebbero le Floreali, feste istituite in onore della celebre cortigiana Flora, che legò al popolo romano tutta la sua fortuna. Queste feste che le donne dissolute consideravano come fatte per loro, si davano al circo e servivano di pretesto ai più infami disordini. Le cortigiane vi si recavano in gran pompa, ed una volta là, si liberavano delle vesti, mettevano in mostra compiacentemente tutto ciò che gli spettatori volevano vedere, accompagnando ogni gesto con moti lascivi ed impudichi. Ad un momento convenuto gli uomini nudi anch'essi si mischiavano con tali donne e, al suon di trombe, aveva luogo una spaventevole scena

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Argomenti: popolo romano,    soave incanto,    studio assiduo,    dolce nenia,    dolce gemito

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