L'Olimpia di Giambattista Della Porta pagina 16

Testo di pubblico dominio

larga. TEODOSIO. Non son cose queste da dirsi alla larga. CAPITANO. Ni yo soy hombre de dejarme coger á la estrecha contigo. TEODOSIO. Ascoltate, non temete; questi vi burla. LAMPRIDIO. (Se questi l'ascolta io son spacciato). Signor capitano, se non lo fate ligare e strascinar in prigione, storpiará alcuno e fará piú strane cose di queste. TEODOSIO. Ascoltatemi, di grazia: due altre parole. CAPITANO. Y de missa tambien. ¡Válgame nuestra Señora! Tomad este y arrastradle. Gentilhombre, váyase V. M. en buena hora; y le beso las manos. TEODOSIO. Son uomo da esser cosí ligato e strascinato? questa è la giustizia? CAPITANO. Gentilhombre, me perdonarás si no conosciendole le he offendido. LAMPRIDIO. Non fa offesa chi non pensa di farla. (Vo' seguirli per veder che succede di questo fatto). ATTO V. SCENA I. LALIO, SENNIA. LALIO. O tristo me, perché mi battete? SENNIA. Per farti proprio tristo come dici. LALIO. O Dio, che volete che dica? SENNIA. Non t'ho lasciato con Eugenio e Olimpia nella camera? LALIO. Sí, ma poi me ne uscii fuora. SENNIA. Perché ne uscisti? LALIO. Perché viddi…. SENNIA. Che vedesti? LALIO. Nulla. SENNIA. Prima dici che vedesti e poi dici nulla. Non posso cavarti di bocca una parola di questo fatto. Perché mi parli cosí mozzo? parla col tuo malanno! LALIO. O Dio, che se lo dico, Olimpia ha giurato di volermi ammazzare. SENNIA. E se non lo dici, ti ammazzarò or ora. Quello d'Olimpia ha da venire, ma il mio sará adesso, al presente. LALIO. Io non lo dico, avertete. Quando voi mi diceste che stessi in camera, io me ne uscii per vergogna. SENNIA. Di che cosa? LALIO. Di quel che viddi. SENNIA. Dimmi, che vedesti? Oh quanto mi fa penar questo ghiottarello! presto, che ti possi fiaccare il collo! LALIO. Avertete ch'io non dico che il fratello e la sorella stavano abbracciati insieme; né mai Olimpia diceva:—Fratel mio!—che il fratello con un bacio non le togliesse di bocca le labbra, la lingua e la parola insieme. Poi dissero che si volevano far fratelli e sorelle carnali. SENNIA. E come facevano? LALIO. Che so io? Si serrorno a chiave entro la camera. SENNIA. Quando apersero poi, che facevano? LALIO. Nulla: l'avevano fatto giá. SENNIA. Menti per la gola! se la porta stava serrata a chiave, come vedevi che si facessero? LALIO. Dava qualche occhiatina per le fissure e per lo buco della chiave. Quando apersero, stava Olimpia avampata di foco in faccia e s'accomodava i capelli; e mi domandò di voi e, io dicendole che non l'avea vista se non io, giurò che, se diceva alcuna cosa di questo fatto, m'ucciderebbe: e però non ho voluto dir niente, avertete. SENNIA. Taci, vattene su e non cicalar a persona del mondo ve', se non che ti trarrò la lingua insin dalla gola, sai. SCENA II. SQUADRA, SENNIA. SQUADRA. A tempo vi veggio, Sennia. SENNIA. M'indovino la nuova. SQUADRA. Voi dovete saper che voglia. SENNIA. Che si mariti mia figlia questa sera col capitano. SQUADRA. Tutto il contrario: a rinunziarla e sciorsi dalla promessa. SENNIA. Come questo? SQUADRA. Me ne dimandate ancora? non si sa per tutto Napoli che un romano sotto nome d'esser vostro figlio s'ha goduta vostra figlia? SENNIA. Come sai questo tu? SQUADRA. L'ho visto or ora menar prigione da' birri; e di questa trama
Mastica ne è stato il mezzano.
SENNIA. Ah traditore! SQUADRA. Avete il torto ingiuriarmi. SENNIA. Non parlava con te. SQUADRA. Trasilogo ha preso Cornelia, di che era stato stimulato da' parenti; e or si fanno le nozze con contento d'ambedue le parti. Ho fretta, ti lascio in pace. SENNIA. Anzi in tormento e angoscia. O vita mia, serbata in sino a tanto che avessi visto cosa di che fussi forzata a dolermi mentre io viva! O vecchiezza viva mia, perché non mi manchi? or conosco che col lungo vivere si sopportano molte adversitadi. Oh con quanto pericolo si guardano le cose che piacciono a molti! Un giovane insolente sotto nome di figliuolo onorato mi rubba l'onor mio e di mia figliuola, nelle cui nozze era tutta la speranza della mia contentezza. Ecco la cosa risaputasi per tutto Napoli: si divolgherá per tutto il mondo. Bisognerá fugirmene di qui e vivere disconosciuta dovunque vada, per non aver piú fronte di comparir fra le persone onorate. O onor mio acquistato e serbato con tanta fatica per sí lungo tempo, come t'ho perduto in un ponto! quando piú spero di ricovrarti? SCENA III. MASTICA, SENNIA. MASTICA. Padrona, la cena è in ordine e vi potrete sentare quando volete. SENNIA. Fa' che non manchi nulla, ché verrò poi. MASTICA. Non bisogna tardar piú perché le vivande stanno a disaggio, si guastano. SENNIA. Non mi dar fastidio. MASTICA. Come volete si serva: alla francese o alla italiana? SENNIA. (Emmi venuta questa bestia dinanzi per non farmi dolere quanto vorrei). MASTICA. Volete condisca la carne col petrosemolo, col coriandolo o col petrotimo. SENNIA. (Dio mandi malanno a te e alle tue minestre!). Vien qua, uomo da bene. MASTICA. Non chiami me? SENNIA. Non ci sei dunque? MASTICA. Questo nome non convenne mai né a me né ad alcuno di miei antecessori. SENNIA. Vien qua dunque, ribaldo piú d'ogni ribaldo. MASTICA. (Questa vecchia sta con gli occhi rossi come avesse pisto cipolle: non so che se l'aggira per lo capo. Certo ará scoverto qualche cosa di Lampridio e n'ha rabbia e dispetto. Oh che tutta la casa fusse a questo modo e che a me solo toccasse una volta empirmi la pancia a mio modo!). SENNIA. Vien qua presto! che borbotti? MASTICA. Avertete, padrona, ch'io non ho colpa nessuna nelle cose di vostra figlia, avertete. SENNIA. L'escusarsi senza bisogno è un manifesto accusarsi. Dimmi un poco: ti par cosa convenevole che tu, nato e allevato in casa mia e sempre ben trattato, m'abbi tradito nel modo che hai tu fatto? MASTICA. Io traditore? questo non si troverá mai. SENNIA. Portarmi un prosontuoso dinanzi, con dir che sia mio figlio per farlo adultero di mia figlia! MASTICA. Oh! che io perda l'appetito per dieci giorni e il gusto del vino se so nulla di ciò che dite. SENNIA. Lo nieghi ancora? MASTICA. L'arciniego ancora. Ti giuro per questo stomaco e questa gola come non so nulla di quanto dite. SENNIA. Dunque non sei stato tu? MASTICA. Voi proprio il dite. SENNIA. Cosí cotesto stomaco ti sia aperto e a cotesta gola ti sia posto un capestro dal boia, che non mangi né bevi piú mai, come tu sei stato cagion d'ogni cosa! MASTICA. Se trovarete tal cosa, voglio esser squartato e attaccato per li piedi alle dispense come presciutto, e i miei quarti come carne salata. SENNIA. Ma io non vo' darti altro castigo se non che in questa casa, che tu hai sí poco onorata, non habbi piú mai da mettervi il piede. MASTICA. Voi burlate! io me n'entro. SENNIA. Ti lascierò fuor io, e non far piú pensiero d'entrarvi. MASTICA. Lasciatemi cenar prima, ché me n'uscirò domani. SENNIA. Ti lascierò fuor io. SCENA IV. MASTICA solo. MASTICA. Oimè, l'uscio è serrato a chiave. Sia maladetta la mia sciocchezza a farmene cavar fuora senza mangiar prima! O padrona, o padrona! Oimè, perché non cavarmi gli occhi, perché non tagliarmi il naso e l'orecchie e non cacciarmi digiuno fuori? Il carriar delle legna, il soffiar del foco mi hanno talmente diseccato il polmone che è fatto piú arido d'una pomice. Questa è stata la mia speranza in esser tutto oggi cuoco e facchino? Quando credeva che la pancia avesse a gonfiarsi duo palmi fuora, sento il ventre che mi tocca la schena; par che sia una donna figliata di fresco, una vessica sgonfiata. Oimè, che le budella mi ballano in corpo! Dove andrò a cenare, ché l'ora è tarda e ho fatto questione con tutti? O vitelle, o porchette, o lasagni, o sguazzetti, o saporetti che odoravate cosí suavemente; o liquore, o vino che tornavi l'anima dentro i corpi morti, dove sète andati? Sono venuti i lupi e s'hanno ingoiato la cena che son stato tutto oggi ad apprestare. Mi sento l'anima venire a' denti: ben sará se questa sera non m'impicco con le mie mani! SCENA V. PROTODIDASCALO, FILASTORGO. PROTODIDASCALO. Se le

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