L'arte di prender marito di Paolo Mantegazza pagina 3

Testo di pubblico dominio

fanciulle cercan sempre una stessa cosa, una cosa sola: l'uomo. * * * E anche Emma guardava dalla finestra della sua cameretta, che dava sulla via. E le ore filavano filavano senza noia e senza gioia, in una fantasticheria piena di ombre e di poesia. Quanti poemi scriveva fra le nuvole, quante commedie e drammi immaginava sulla terra! La via dove abitava era larga, ma non tanto da non poter distinguere chi abitasse la casa di faccia. Ma questa era da un pezzo muta d'ogni voce. Il primo piano era abitato da una ricca famiglia, che stava quasi sempre in campagna. E il secondo era sfittato da un pezzo. Un giorno però si videro spalancarsi tutte le finestre di quel piano e comparvero figure di uomini, di donne, di bambini; tutta la colonia d'una famiglia numerosa. Emma però non vide che un giovanetto, che non doveva aver ancora vent'anni, dacchè il primo onor del mento non poteva esser veduto che molto da vicino o con forti cannocchiali. Del resto una faccia come ve ne son cento. Nè brutto nè bello, ma con quel pallore, quella magrezza, quell'andar dinoccolato e incerto che ti mostrano lo sforzo grande, che fa la natura per trasformare un fanciullo in un uomo. Non eran passati che pochi giorni e anche il giovinetto vide Emma, e da quel giorno, bench'egli fosse un Enrico e non una Enrichetta, passò anch'egli lunghe ore alla finestra. Se non che, se per caso egli affacciandosi, vedeva Emma, questa si allontanava subito dal suo posto d'osservazione. Passarono parecchie settimane senza che fra quei due accadesse altro, che un guardarsi, un arrossire di entrambi, ma più di lei che di lui; un cercarsi e un fuggirsi. Emma non aveva mai osato domandare alla cameriera chi fosse quella famiglia venuta a star di faccia; ma a tavola senza volerlo aveva saputo che era gente onesta e agiata. Un avvocato carico di famiglia, che mandava innanzi la casa coi travagli quotidiani della toga e che tra gli altri molti figliuoli aveva un giovanetto, che studiava medicina all'Università. Quel giovanetto era Enrico. E su Enrico si appoggiarono tutti gli incerti desiri, tutti i sogni di Emma; e in lui, senza avergli mai parlato, senza averne neppure di lontano udito la voce, cercò l'uomo. E l'uomo Enrico cercò la donna Emma e l'amò, poeticamente, ingenuamente; con tutte le sublimi puerilità d'un primo amore. Chi dei due fosse più timido, non saprei dire; perchè lo erano entrambi fino all'impossibile. Egli scriveva dei versi, che voleva gettarle nella finestra aperta; ma i versi si accumulavano e rimanevano nel cassetto. Essa voleva fermarsi, quando egli fosse apparso, e voleva rispondere con un sorriso al suo sguardo; ma continuava invece a fuggire e il sorriso rimaneva sempre inedito. S'erano incontrati più d'una volta anche per via e una volta anche in teatro in due palchi vicini. E allora si erano guardati più a lungo del solito, cercando di arrossire il meno possibile. * * * Passarono sei mesi e le cose erano in questo stato: Lui sapeva di essere amato, lei era sicura di essere adorata, e naturalmente ognuno di loro sapeva di amare. Dove però dovesse finire questo amore nessuno dei due sapeva, e non facevano un passo innanzi per avvicinarsi l'uno all'altra. L'unica corrispondenza consisteva in ciò, che quando Emma vestiva per più giorni di un dato colore, Enrico compariva alla finestra con una cravatta della stessa tinta. Un giorno però Enrico si alzò pieno di coraggio. Si sentiva un eroe e voleva approfittare subito di quell'eroismo, che poteva esser fuggitivo. Escì di casa, comperò un mazzolino di mammole doppie, e dopo averlo circondato di una foglia di stagnuola vi chiuse una pietruzza e un bigliettino con queste sole parole: Enrico alla sua adorata Emma. Poi, dopo aver veduto che la finestra di lei era aperta, e che nessuno guardava da altre finestre, slanciò con quanta forza aveva il mazzolino nella camera di lei. Se non che egli tremava tanto e le forze eran tanto pochine, che il mazzetto cadde sul marciapiedi e un monello che passava di là in quel momento, lo raccolse e lo portò via. * * * Fu tale lo spavento del povero Enrico di aver compromesso la sua Emma con quell'atto temerario, che per più giorni non si affacciò più alla finestra, con grande sorpresa e grande dolore di lei, che ignorava i motivi di quell'assenza insolita. Intanto lei si innamorava ogni giorno più. Non solo amava lui, perchè lo trovava più bello, più simpatico, più intelligente di tutti gli altri uomini; ma amava gli studenti di medicina e i medici, perche avevan dei rapporti con lui. A tavola, nelle conversazioni della sera, trovava sempre modo di condurre il discorso su argomenti di medicina e voleva sapere quanti anni durassero gli studii universitarii per conseguire il diploma di dottore e si informava dei medici, più celebri della città e voleva sapere i nomi di tutti i professori della Facoltà medica. Questa sua insistenza dava negli occhi alla famiglia, e nessuno poteva darsene ragione, non avendo il menomo sospetto sulla presenza dello studentino di faccia. Un giorno a tavola il babbo ridendo ebbe a dirle: —Ma vorresti forse studiar medicina? Bada che sei troppo vecchia per incominciare gli studii universitarii. Quando Emma esciva a passeggio colla mamma o con qualche amica si fermava sempre davanti alle botteghe di strumenti chirurgici e li guardava con affettuosa curiosità, pensando che Enrico li avrebbe maneggiati e chi sa con quale perizia, salvando la vita a chi sa quanti infelici. Nella vetrina dei librai cercava i volumi che trattavano di medicina, e benchè non ne capisse neppure il titolo, li guardava e li riguardava con affetto. Erano anche quelli cose del suo Enrico e già sognava di vederli sul suo tavolo, quando sarebbero vissuti insieme e lei si sarebbe messa accanto a lui col lavoro fra le mani, mentre egli allo scrittoio stava studiando. Sì, egli studiava, ma ad ogni tratto levava gli occhi dal suo libro e la guardava teneramente negli occhi e le sorrideva e poi e poi le dava un bacio; un bacio come quello famoso, che aveva veduto dare dal cugino alla cugina, là sullo sportello del vagone. * * * Oh perchè mai non si possono conservare per l'autunno dell'età adulta, per l'inverno della vecchiaia, tutti quei fiori, che ci sorridono sul capo, fra i piedi, che ci accarezzano il volto da ogni parte, quando attraversiamo la primavera della giovinezza? Almeno di quelli che fioriscono nei giardini e nei campi i profumieri sanno distillarci essenze, che si chiudono in barattoli, e che di lontano ci richiamano il prato e il giardino; ma di quelli altri fiori, che si chiamano l'innocenza, l'amore, la spensieratezza, che sorridono e imbalsamano l'aria, chi ci serba l'essenza? Di quei pianti senza dolore, di quelle lagrime senza amarezza, che brillan nell'alba della vita, come gocciole adamantine di rugiada e che così facilmente si alternano colle sonore e squillanti risate, qual fonografo ci serba le delizie e gli incanti? Non rimpiangiamo l'impotenza del profumiere e del fonografo!—Nulla muore di ciò che nasce, e solo gli atomi nell'eterna ridda d'una vita che non posa mai, mutano forme e armonie. I fiori della primavera si dissolvono nella terra, che alimenta gli uomini, e nuove giovinezze succhiano gli umori dei nostri petali avvizziti; mentre lentamente matura il frutto sul nostro ramo invecchiato. * * * Quanti di quei fiori s'aprivano e s'avvizzivano l'un dopo l'altro, alternandosi in una continua festa nell'anima giovinetta di Emma! Essa non li numerava, perchè eran troppi, e mentre ne coglieva uno, cento e cento altri sbocciavano e se ne empiva le mani e il grembo e se ne incoronava il capo e vi cacciava dentro la testolina innamorata, nascondendo nel seno i più preziosi e i più cari. Non aveva mai parlato a Enrico, non ne aveva neppur udito la voce,—e l'amava. Enrico era giovane ed era un uomo! Non ne conosceva il carattere nè il pensiero. Avrebbe potuto essere un farabutto o un imbecille; e l'amava; ma Enrico era

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Argomenti: troppo vecchia,    avvocato carico,    lontano udito,    amore nessuno,    grande sorpresa

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