La strega ovvero degli inganni de' demoni di Giovan Francesco Pico Della Mirandola pagina 16

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modestia) andare dubitando, e scoprire or di qua e di là, or a te, or a Dicasto (quasi come una piaga al cirugico), la debolezza dell'ingegno mio, perchè (s'io mi ricordo bene) è stato detto da un grande uomo, che in simili cose, le quali pare che avanzino il comprendere nostro, si debbe ire passo passo, acciocchè, se facendocene noi beffe, non si dica subito che noi lo facciamo con fraude, o credendole al primo, non diamo nella rete, e nella superstizione delle vecchierelle. Se bene io sono stato ambiguo con l'animo, e che mi paresse cosa da dubitare, nondimeno non ho mai ostinatamente contraddetto. FR. Se tu sei di questo parere, di volere in questo seguitare l'intelletto, e non la volontà, si può certamente sperare bene di te. Ma osserva sempre in ogni cosa dove sia pericolo, e in questa specialmente che noi disputiamo, che le passioni non precedino l'intelletto. Sono bene alcuni, che negli studj e nelle scienze guastano l'ordine, mandando prima quello che ha ire di poi; prima determinando con la volontà quel che sia la verità, che l'abbiano esaminato con il lume dell'intelletto. AP. Io già desidero d'intendere quello che Dicasto abbia da dire in questa cosa, il qual veggo che ritorna a noi. Se vorrà mantenere le sue promesse, non possono essere se non cose eccellenti. FR. Bisogna quietare la nostra fame, e poi si quieterà la tua sete, e il tuo desiderio. DIC. Il desinare è apparecchiato un pezzo fa, e abbiamo fatto tardi col nostro disputare. Come noi aremo dato al corpo il suo bisogno per ristorarlo di quel che continuamente perde e consuma, entreremo nella disputa che ci resta. III. INTERLOCUTORI APISTIO, DICASTE, FRONIMO e STREGA. APISTIO Poi che al tutto abbiamo rimosso la fame, siami lecito, Dicaste inquisitore, innanzi ogni altra cosa domandarti questo, che mi ha messo nell'animo, non uno scroparello, ma una lancia, se si concede che sia vero quello, che abbiamo udito da quella strega. DIC. Siati lecito ciò che ti piace. AP. Non mi satisfanno le cose che son dette da qualcuni, cioè che di questi mostruosi vizj che son comportati, se ne faccia giudizio in luoghi sotterranei, per il quale siano puniti coloro che sono immersi in queste sceleranze, essendo molto meglio il proibirle, che il permetterle per castigarle. DIC. E meglio certo se tu riferisca questo a colui che ha commisso il peccato, dal quale sendosi astenuto aria fatto grande utile a sè stesso. AP. Perchè cagione gli è permesso che lo commetta? Non pensiamo noi che divinamente sia dovuto essere, se divinamente sia stato vietato? DIC. È vietato per la legge, non con operazione, che non possa farlo. AP. Perchè egli è permessa quella operazione? DIC. Perchè gli è posta nell'arbitrio libero dell'uomo. AP. Non era egli meglio, che quello, che Dio aveva conosciuto essere per cascare in questa grandissima empietà, non fusse mai nato? DIC. Era meglio certo, che fusse morto nel ventre di sua madre in quanto a lui, dovendo perseverare insino al fine della vita nella sceleranza. AP. Pensi tu che a lui fusse stato meglio il non essere mai nato? DIC. A chi eh? AP. A esso. DIC. È quistion frivola, imperocchè esso è niente. Sono in fra di loro tanti contrari, che l'uno distrugge l'altro, e quello che noi discorriamo non apporta ad esso niente di prospero o d'infelice. AP. Per che conto adunque creò Dio con la sua somma bontà colui che conosceva essere dannato all'eterno tormento? DIC. Per la stessa somma bontà sua. AP. Come può stare questo? DIC. Può stare in cotal guisa: acciocchè la infinita bontà di Dio non sia vinta dalla malizia umana. E questa sentenza dicono che rispose San Piero Apostolo a Simon Mago, che gli domandava una simil quistione, se gli è vero quello che ha lasciato scritto Clemente della disputa avuta in fra di loro. Parrebbe veramente che l'opera della infinita potenza avesse a mancare del benefizio di creare l'anima, per questa cagione che l'uomo sia per male usare questo tal benefizio. Aggiungi che se tu consideri a tutte le altre virtù mostrate da Dio al mondo, la giustizia si scopre in coloro che hanno voluto più presto fuggire, che seguitare i doni della bontà e della clemenza; nè per questo o si ammorza, o si diminuisce la misericordia, ponendosi secondo che ricerca il rigore della giustizia; e così di quella sceleranza, e di quei mali, ne nasce qual cosa, che è cavata da Dio stesso, predicato da Augustino per tanto buono, che non permetterebbe il venire del male, se non volesse cavare da quello qualche maggior bene; il che dagli uomini dotti spesse volte (se non sempre) è conosciuto riuscirne; ma non è già visto dal volgo. Bastiti queste poche cose per esempio. Il giusto Giosef fu venduto da' fratelli con grandissimo loro peccato. L'indotta moltitudine non cerca più oltre niente altro, ma gli uomini dotti e pieni d'animo pio, conoscono per cagione di così empie mercanzie, Giosef fatto re dell'Egitto, avere liberato dalla morte il padre, i fratelli; e tutta la famiglia; e di qui poi essere venuti molti e gran misterj celebrati da noi. Risplende la virtù e la gloria de' martiri per i tormenti e per le morti date loro dai tiranni. E finalmente, chè più, per la morte di Cristo si manifestò all'umana generazione l'eccessiva bontà di Dio, la redenzione dall'eterna morte, e la porta alla pietade aperta, e alla giustizia. AP. Tu mi hai cavato quello scroparello che mi molestava: dichiara al presente s'egli s'ha a mettere fra le cose vere quella che abbiamo udito, seguitando quel che ne veniva, e mostrando questo giuoco essere storia, e non cosa finta e fabulosa, come promettesti di fare. FR. Sei tu per ricevere ogni cosa per istoria? AP. No, perchè quella samosatena è mera fabula, e nondimeno ella va attorno sotto nome di vera narrazione; ma sono anco molte cose così incerte, così doppie e varie in voce degli uomini, che paiono essere poco differenti dalla favola. FR. Tu la discorri bene. Perchè siccome infra le tenebre delle favole, qualche volta riluce qualcosa di vero, così fra le narrazioni delle storie, che hanno infra di loro repugnanza, ne troverai forse una di vera: l'altre vacillando con falsità, sono da essere poste fra le favole. Imperocchè il vero non può contrastare al vero; dipoi, Dicaste, mi pare d'intendere quel che vuol dire Apistio. DIC. Che cosa? FR. Una storia approvata con molti testimonj, a petto a cui non se ne possa mettere un'altra di maggiore o di pari autorità. AP. Tu hai espresso l'animo mio. DIC. Vi prometto di mostrare che appartiene alla religione cristiana il credere che questo giuoco si faccia, e il procurare noi di estirparlo. Io vi addurrò molte storie che pure non saranno in fra di loro contrarie, ma massimamente concordi, e farovvi rimenare qui la strega. O guardia della prigione! va, menala qui subito. Costrignerolla ancora con sacramento che ella confessi il vero, di quelle cose che io vi addurrò; similmente molte n'abbiamo avute testificate da uomini costretti col sacramento, e scritte per memoria de' posteri, a confermazione della verità. AP. Or di' via. DIC. Io vi potrei rimettere a' libri, che trattano di questa cosa, composti con gran diligenza; ma ancora che questo fusse grato a Fronimo, che mostra per la disputa che ha fatta d'essere pratico in ogni sorte di scrittori, nondimeno non satisfarebbe ad Apistio, che pare che abbia attinte molte di quelle lettere che son più pulite, e che contraddica a tutti quei libri, che non sono eleganti e puliti. AP. Biasimi tu forse, Dicaste, con questa tua figura retorica,
L'eleganza del parlare nel verso, o nella prosa?
DIC. Niente. AP. Pare pure che sogliano alcuni, i quali sapendo solamente lettere parigine, cioè scritte per quistioncelle (imperocchè ne ho già veduti a Parigi volumi scritti da gente di quivi, con stile elegante e buono) avere in odio l'orazione continuata acconciamente, distintamente e ornatamente composta. DIC. Io sarò da essere messo nel numero di loro? che son certo così aver fatto Giovan Crisostomo,

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