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Il benefattore di Luigi Capuana pagina 17dell'amante di sua moglie, per strappargli il segreto. E a un saluto, a un sorriso, a un complimento rivolto da colui a qualche signora, Bertagni vibrava di indignazione. Non erano furati a sua moglie? Capiva di esagerare: ma, da lì a poco, dovette convincersi che faceva benissimo; la esagerazione lo costringeva a spalancare gli occhi, ad aguzzare lo sguardo, a tendere l'orecchio. E così ora soffriva lui—Lucia non sospettava affatto, e si lasciava illudere dalle apparenze!—soffriva lui tutte le torture, tutte le lacerazioni, tutti gli strappi al cuore prodotti dalla gelosia allorchè ci si rizzano davanti agli occhi misteriosità terribili, e per poco la nostra intelligenza non si smarrisce tra le tenebre della pazzia! —Che hai?—gli domandava Lucia. —Nulla. —Che ha?—gli domandava anche l'altro. —Nulla. E il più profondo dolore del Bertagni era quel turbamento che involontariamente egli doveva cagionare nell'animo della moglie col silenzio, con le reticenze, con l'aspetto rannuvolato; giacchè, per quanto si sforzasse di dissimulare, non sempre riusciva. —Sai tu qualcosa?… Puoi tu indicarmi qualche traccia? Non essere pietosamente crudele! Parla!—mi disse all'ultimo.—Te ne supplico: parla! Non sapevo che rispondergli e lo guardavo stralunato. E mi raccontò che il giorno avanti avea voluto ammonire colui, senz'averne l'aria, fingendo di ragionare intorno a un caso molto simile al suo. —Il seduttore—gli aveva detto—è vigliacco, se tradisce senza nessuna ragione. Offende due volte la donna amata; prima, rendendola colpevole; poi, posponendola a un'altra che, forse, vale assai meno di quella. Io, marito, se avessi la disgrazia… —Che discorsi!—lo aveva interrotto l'amico. —Io, marito,—egli continuò—se avessi la disgrazia… (oh, non tanto pel tradimento—novantanove volte su cento, il seduttore è un amico!—quanto per l'offesa dell'abbandono…) Io marito… —Che discorsi!—tornò ad interromperlo colui, imbarazzato. —Io marito, che potrei essere indulgente nel primo caso, sarei proprio inesorabile nel secondo, se mai avessi la disgrazia… —Non mi ha lasciato finire—esclamò dolorosamente—e mi ha voltato le spalle!:.. Ho fatto male? Forse, ahimè, ho accelerato la catastrofe che avrei voluto impedire!… E per ciò oggi che ho il cuore assai più oppresso, e sento un gran bisogno di sfogarmi nel seno di un amico fidato, sono venuto da te. Scusami!… Povera Lucia! Non l'ho riveduto più, nè ho mai saputo la soluzione di questo caso, forse unico, di gelosia maritale. Io dovetti lasciare Torino alcune settimane dopo, e non vi sono più ritornato. Appresi a San Francisco che il buon Bertagni era morto di nefrite, nel '50. IV. La redenzione dei capolavori. —Che ne dice, dottore?—domandò la baronessa Lanari. —Non ho capito bene—rispose il dottor Maggioli.—I giovani di oggi fanno da vecchi anche parlando. A vent'anni—ahimè, più di mezzo secolo fa—la generazione a cui appartengo urlava, gesticolava fin ragionando di cose ordinarie, metteva in ogni suo atto quella vivacità e quell'entusiasmo che poi produssero le quarantottate… Non rida, giovinetto mio—egli proseguì, rivolgendosi a colui che aveva parlato.—Le quarantottate sono valse a qualche cosa; e, forse senza di esse… ma non entriamo nella politica. Volevo dire che non ho afferrato bene il senso delle sue parole; lei parlava troppo piano. —Per timidezza,—lo interruppe il giovinetto.—La mia opinione avrebbe potuto sembrarle un'enormità. —Abbia il coraggio di affermare qualunque enormità ad alta voce. È un modo come un altro di far progredire l'umanità. Lei dunque sosteneva… —Che un giorno noi ci sbarazzeremo delle nostre gallerie d'arte, vendendole ai selvaggi del centro dell'Africa, della Nuova Zelanda, della Papuasia, agli Esquimesi, agli abitatori dei Poli, se ce ne sono. Quadri e statue serviranno loro da giocattoli, fino a che quei selvaggi non si saranno anch'essi inciviliti; se pure, da fanciulli grandi, non li sciuperanno prima, per vedere come sono fatti, precisamente come praticano i nostri fanciulli coi giocattoli di Parigi e di Norimberga. —S'inganna, riprese il dottore sorridendo.—Così le avrebbe risposto il mio vecchio professore di fisiologia, se lei gli avesse espresso questo suo convincimento. Tra quattro o cinque secoli—egli metteva una lunga data per precauzione—i veri capolavori di pittura e di scultura non esisteranno più, cioè non staranno più chiusi nelle gallerie, ma andranno attorno pel mondo, vivi, immortali, e genereranno altri esseri, immortali al pari di loro; e formeranno, forse, il nucleo dell'umanità futura. —Questa, sì, è un'enormità!—esclamò la baronessa. —Lo credevo anch'io; ma ho dovuto ricredermi. E morrò col dispiacere di non poter assistere alla Redenzione dei capolavori, come il mio professore la chiamava. —Ci sarà dunque pure un Cristo per le opere d'arte? —Sì, baronessa; e sarà quella stessa divina forza che le ha create: il Pensiero! —Vuole sbalordirci, dottore! —Quando avrò raccontato quel che ho visto con questi occhi, lei penserà diversamente. —Quante stranissime cose ha viste!—esclamò la baronessa con fine espressione di malizia. —Privilegio della vecchiaia! Quel mio professore di fisiologia aveva un gran difetto; era eccessivamente modesto. Soleva dire:—Più la scienza va avanti e più diviene ignoranza!—Modo suo speciale per indicare che ogni mistero schiarito ce ne mette sùbito innanzi parecchi altri e maggiori. La modestia di quel grand'uomo proveniva dalla sua immensa dottrina. Diceva pure:—Una verità precoce può esser utile assai meno di una menzogna opportuna.—Ed è vero. Ma se io dovessi riferire tutti i sapienti aforismi del mio vecchio professore non la finirei fino a domani. Per arrivare al concetto della Redenzione dei capolavori, egli era partito dall'idea che il pensiero umano, creando un'opera d'arte, non poteva agire diversamente dal pensiero divino che agisce nella natura. Secondo lui, si trattava anzi dell'identica forza creatrice, con la sola differenza che il pensiero divino opera nella natura direttamente; indirettamente, per mezzo dell'umano organismo, nell'opera d'arte. Io, materialista in quel tempo, sorridevo sotto il naso udendo queste metafisicherie dalla bocca di un professore che, appunto per la scienza da lui coltivata, la fisiologia, giudicavo avrebbe dovuto essere più materialista di me. Lo ascoltavo però con rispetto, perchè infine le sue metafisicherie si abbarbicavano sempre a un fatto, a parecchi fatti che gli esperimenti rendevano indiscutibili. Pensavo—È un gran poeta costui!—e ignoravo di dire una profonda verità, giacchè poeta significa: creatore o, meglio, rivelatore. Egli stimava che le figure umane dipinte dai grandi artisti o scolpite in marmo, quando raggiungevano un alto grado di bellezza, dovevano essere certamente qualche cosa di più che semplici figure con la sola apparenza della vita. Figure voluttuose, figure severe, figure pensose, figure dai cui occhi e atteggiamenti traspariscono l'anima e la volontà, no, non potevano essere soltanto un gioco di linee e di colori, se poi provocavano sensazioni e sentimenti che sono arrivati in certi individui fino alla passione e alla pazzia. Piuttosto creature con organismi incompleti, o, meglio con organismi più raffinati, più perfetti del nostro, ma rimasti come in incubazione su la tela o nel marmo, in attesa dell'alito risvegliatore della loro vita latente. —È una bella fantasia!—gli dissi un giorno. —Sarà una realtà, giacchè mi costringi a rivelartelo—egli rispose. E mi condusse in una stanza appartata del suo vasto laboratorio. A una parete era appeso un ritratto di donna. Mi parve di riconoscerlo; avevo una confusa idea di averlo visto e ammirato non ricordavo più dove, quantunque ora—per accorta disposizione di luce, credevo—mi sembrasse assai più bello. 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