Il benefattore di Luigi Capuana pagina 13

Testo di pubblico dominio

singhiozzi che gli stringeva la gola, e con una viva repugnanza di assumere parte della responsabilità di quell'atto disperato. Chiamò il cameriere, ordinò che gli portasse il conto dell'albergo, e cominciò a preparare le valigie. Avrebbe ripreso la sua corsa pel mondo, finchè i danari gli fossero bastati, finchè non si fosse annoiato di errare, ignoto tra gente ignota… E poi?… E poi avrebbe continuato a vivere come prima, sarebbe invecchiato, inutile agli altri e a sè stesso.. e sarebbe morto, portando con sè nell'altro mondo, come testimonianza della sua dimora in questo, assieme con un bel sogno, la soddisfazione di aver amato davvero, una sola volta… e la lusinga o il sospetto di essere stato amato davvero, una sola volta! RACCONTAVA IL DOTTOR MAGGIOLI… I. I microbi del signor Sferlazzo. Si parlava di microbi. —Il soggetto è troppo grave da poter essere accennato in conversazione—disse il dottor Maggioli.—E poi, io sono oramai un po' fuori dal mondo scientifico; sto a guardare, sto a sentire quel che fanno e dicono gli altri, e non ho più voce in capitolo. La mia opinione sarebbe di nessun valore. Quando diventiamo vecchi, non ci si atrofizzano soltanto i muscoli e le ossa, ma anche il cervello. Certe idee nuove non possiamo più assimilarcele, non riesciamo ad intenderle; e resistiamo financo all'evidenza dei fatti. In ogni modo, a proposito di microbi, ho una storiella da raccontare. Il cavalier Carmine Sferlazzo (il suo deputato lo aveva fatto crocifiggere con la stella d'Italia perchè attivissimo elettore) non era un'aquila, oh, no! ma era certamente una brava persona. Egli aveva letto su pei giornali molte chiacchiere intorno a questi maledetti invisibili animalini che ora si trovano dappertutto e dei quali, anni fa, nessuno sapeva niente; ma da uomo prudentissimo, che non dà retta alle fandonie dei fogli, non se n'era dato gran pensiero. Si trattava però della salute, della vita anche; ed egli, che voleva star bene e restare quaggiù il più lungamente possibile, aveva pensato che era meglio avere netta la coscienza; per ciò era andato a consultare il suo medico ordinario. —Dunque, questi microbi? Bisogna dar retta ai giornali? —Siete come i contadini anche voi?—aveva risposto il dottore. —Illuminatemi, spiegatemi tutto. Sono venuto appunto per questo. Altro che illuminarlo! Colui lo aveva atterrito a dirittura. Milioni! Nell'acqua, nelle erbe, nei panni, fuori e dentro di noi, tra i denti, tra le ugne, negli intestini, nell'aria che respiriamo! Fin in Paradiso! aveva conchiuso quello scomunicato che non credeva a niente più in là dalla punta del suo naso. Il cavaliere, all'ultimo, aveva scrollato il capo, diffidente, convinto anzi che quegli avesse esagerato a posta, per fargli paura. Ma un giorno l'infame dottore, trovatolo, per via, lo aveva preso sotto braccio, e lo aveva condotto nel suo studio. —Volete vedere i microbi? —Dove sono? —Qui. E gli aveva messo sotto gli occhi un tubetto di vetro, con in fondo un dito di gelatina. Postolo a sedere davanti a un tavolino su cui era preparato il microscopio, lo aveva poi iniziato nei misteri dell'invisibile. —Eh? Vedete come guizzano? Come si agitano quelle virgolette nere?
Sono ingrandite trentamila volte!
—E che razza di virgole sono? —Microbi del tifo! Il cavaliere diè un balzo. Voleva ammazzarlo dunque? O, per lo meno, farlo ammalare per cavarsi il bel gusto di guarirlo? —Questi scherzi non si fanno, dottore! —Oh, non c'è pericolo! Doveva essere così, se il dottore maneggiava la gelatina impunemente; ma egli non si sentì tranquillo, neppure dopo che quegli lo ebbe spruzzato da capo a piedi con la soluzione di bicloruro di mercurio con cui gli aveva fatto lavare e si era lavato le mani pure lui. Quella notte il poveretto non chiuse occhio. —Ragioniamo!—diceva a sè stesso.—Questi dottori, questi scienziati sono, su per giù, una manica di ciarlatani. Ce le danno a bere grosse, sicuri che noi ignoranti non possiamo smentirli. Quell'altro professore, ieri, non voleva darmi a intendere che è stata misurata, fino a un millimetro, la distanza dalla terra al sole? Hanno mandato gli ingegneri a misurarla col compasso? Fandonie! Ciarlatanate! E la luce delle stelle che mette dieci, dodici, venti mila anni ad arrivare quaggiù! Hanno forse avuto sott'occhio il passaporto di essa, vistato dai sindaci di là? Fandonie! Ciarlatanate! Ma almeno queste sono innocue. Con la storia dei microbi però… Eh, via! I medici fanno il proprio interesse. Ora, quando non capiscono niente di una malattia, ci spiattellano in faccia: Microbi! E si tolgono ogni responsabilità. Spetta a noi cautelarci, guardarci!… E prima? Il mondo esiste da secoli… La gente, una volta, campava duecento, quattrocento anni. Dov'erano allora i microbi? Domineddio li ha creati a posta oggi, per far il comodo dei medici? Fandonie! Ciarlatanate!… Ma poi… chi sa? Le ho vedute proprio con questi occhi, quelle brutte virgole del tifo! Le chiamano virgole! E fanno fare punto fermo e daccapo, per tutta l'eternità! Belle virgole! Si voltò e rivoltò sul letto tutta la nottata, ripetendosi a ogni po':—Ragioniamo!—Che voleva ragionare? All'alba non ragionava più, con lo spavento delle terribili virgole addosso. E che accadeva? Neppure a farlo a posta! Da lì a un mese, egli si ammalava di tifo! —Ah, dottore! Siate galantuomo ora; guaritemi, se non volete che io vi maledica morendo! E invece di rispondergli:—Sì, vi guarirò, farò il mio dovere!—il medico lo aveva sgridato con stizza: —Non dite sciocchezze! Febbre a quaranta gradi; delirio, durante il quale il povero cavaliere si sentiva rodere le carni dalle virgole nere osservate sotto le lenti del microscopio; coma, abbattimento, e tutti i malanni che il tifo porta con sè. Nei brevi lucidi intervalli concessigli dalla febbre e dal delirio, egli si recitava deprofundis e requiem, e dava occhiatacce di odio al dottore, che intanto aveva la sfacciataggine di assicurargli: —Siamo fuori di pericolo! Infatti, il cavaliere ne era uscito quasi per miracolo, ma diventato proprio un altro. Quei microbi a cui fin allora non aveva voluto credere, ora, dopo l'esperienza, diceva, li vedeva dappertutto; e la sua vita diveniva un continuo tormento. In casa sua, dove prima entrava appena qualche romanzo francese, del Montepin, del Merouvel e simili, prestatogli da questo o quell'amico, ora si accumulavano giornali, opuscoli, fascicoli di riviste mediche, opere in più volumi, con figure, intorno ai diabolici microbi, dai quali egli voleva guardarsi e difendersi finchè fosse stato possibile. Ogni suo atto era regolato scientificamente, con minuzia da sbalordire; il puzzo dell'acido fenico, del sublimato corrosivo, di altri disinfettanti prendeva alla gola chi aveva la disgrazia di dover andare a trovar il cavaliere in casa, per qualche affare. Agli amici non più strette di mano, non più baci di addio o di ben arrivato; non si sapeva mai quel che costoro potevano portar addosso, senza loro colpa! E che scene con la sua amica, alla quale una sera aveva annunziato: —Da oggi in poi, niente baci, niente carezze! Niente! Non voglio infettarti di microbi, nè esserne infettato! Ah, tu non sai! È terribile. Quell'ignorantaccia intanto supponeva che fosse un pretesto per distaccarsi da lei a poco poco, per abbandonarla! E per ciò non voleva sentir parlare di acido fenico, di sublimato, di disinfettanti di nessuna sorta. Oh, meglio quando egli non sapeva nulla! E la chiamavano scienza questa che, invece di guarire la gente, la faceva morire di paura! Mangiando un boccone, bevendo un dito di vino, o di acqua bollita e ribollita, insipida da far nausea, il poveretto si domandava spesso: —Ci sono? Non ci sono? E il minimo dolorino di pancia, la minima accapacciatura lo tenevano in ambascia mortale. Eppure vedeva che la gente se n'infischiava della scienza e dei microbi; mangiava a crepapelle, si ubbriacava, faceva

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Argomenti: povero cavaliere

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