Romanzo d'una signorina per bene di Anna Vertua Gentile pagina 9

Testo di pubblico dominio

ancora giovine e bellissima. La rivide, con il pensiero, come l'aveva veduta la sera del ballo; superba nel vestito di raso di colore turchino pallido, con la scollatura ardita, le braccia completamente nude, scintillante di pietre preziose che le adornavano il collo candido e i capelli d'un biondo caldo, a riflessi metallici. Il suo papà non l'aveva lasciata un momento durante tutta la festa. Come mai ella non aveva indovinato nulla?… Ora li rivedeva insieme, ballare le quadriglie, recare confusione nella grande chaine nei movimenti a gauche e a droite. Li rivedeva passeggiare per le sale fra un ballo e l'altro, andare insieme al buffet, sedere sempre vicini. «Che stupida sono stata a non accorgermi di nulla!—disse a mezza voce. E al cane, che guaì al suono di quelle parole, soggiunse, non smettendo di accarezzarlo: «Non è vero, Wise, che sono stata una stupida? Il cane gemette fregando il muso contro le sue ginocchia: «No, non stupida!—pareva volesse dire—ma troppo ingenua, troppo fidente, troppo…. occupata d'altro! Occupata d'altro!… Anche dall'anima sua sorgeva questa voce come un'accusa. In fatti, la notte del ballo, ell'era stata occupata ben d'altro che di suo padre!… Si sentì arrossire; un'onda di sconforto le sconvolse il cuore. Pensò con un sentimento di biasimo a Lena che l'aveva lasciata proprio quando ella avrebbe avuto tanto bisogno d'averla vicina; alzò gli occhi al ritratto della mamma, che pendeva dalla parete. Oh se ci fosse stata la sua mamma!… Ella le avrebbe letto in cuore; con la simpatia dell'affetto vero e profondo, l'avrebbe aiutata a veder chiaro nei propri sentimenti, l'avrebbe almeno confortata. In vece non aveva nessuno; nessuno che si occupasse seriamente, amorosamente di lei. Si sentiva sola in mezzo al lusso di quella casa che era la sua; le mancavano d'intorno l'affetto, la confidenza. Dopo la mamma, nessuno l'aveva amata con la tenerezza che rende capaci di qualche sacrificio. Lena l'aveva abbandonata piuttosto di infliggere un'immaginaria offesa al suo orgoglio. In quanto al suo papà, sarebbe stato una pazzia crederlo capace di sacrificare la passione per quella signora, a l'unica figlia che più non aveva che lui! «Wise! povero Wise! tu solo mi vuoi bene davvero!—sospirò, chinandosi su la testa del cane, che finì per posarle in grembo anche le zampe anteriori. Pensò con un sorriso ironico, alle dichiarazioni amorose dei vagheggini che le stavano intorno; ricordò con una spallucciata che voleva dire incredulità e indifferenza, i loro sguardi espressivi, le strette di mano, le paroline buttate là in un susurro. E sorrise fra le lagrime a la bestia fedele: «Tu solo mi vuoi bene davvero, povero Wise! Ma questa persuasione di non essere amata che dal cane fedele, le fece correre nel sangue un fremito di rivolta, come quando uno si sente vittima d'un'ingiustizia. «Che cosa importa essere o non essere amati?—mormorò con un tristo bagliore negli occhi.—Tutto sta nell'adattarsi al proprio destino!… Il mio è forse quello di stordirmi nei divertimenti; di godere; di destare invidia e gelosia. Voglio fare anch'io come molte altre!… Guazzare nel lusso, nello sfarzo, nei piaceri!… Si era alzata e si teneva ritta dinanzi al ritratto della mamma. Era la luce del crepuscolo, erano i suoi occhi, che le facevano trovare su 'l volto dolcissimo della madre, una espressione di dolore e di rimprovero insieme?… Quei begli occhi neri, grandi, vellutati, la fissavano con uno sguardo che le scendeva in cuore, commovendola, scacciandone ogni proposito folle, riempiendola di un desiderio puro e santo. «Perchè non pensi a Dio?… perchè non innalzi il tuo sentimento a lui, come fece la sorella del povero Cecchino? Questo dicevano gli occhi belli; questo pareva mormorare quella bocca mesta, da creatura pensosa. Lucia si buttò in ginocchio dinanzi al ritratto, e giungendo le mani, promise a la mamma sua, che non si sarebbe smarrita nell'isolamento doloroso in cui tutti la lasciavano, che non avrebbe cercato conforto in cose indegne di lei che era figlia di una santa; che avrebbe innalzati cuore e mente là ove ella era e guardava e benediva a la sua figliuola!… «Te lo prometto, mamma! te lo prometto!—mormorò a mani giunte. Uscì di camera con l'animo alleggerito, e al cane che le scodinzolava intorno festoso, fece segno che la precedesse per lo scalone. Passò dinanzi a la camera del babbo, aperta. Vi entrò come faceva spesso, per vedere se tutto era in ordine. Su la piccola scrivania, messa d'angolo, fra due finestre, vide, per la prima volta, in ricca cornice, la fotografia della signora Rabbi, in toeletta di ballo. Sussultò: un livido guizzo di gelosia per sè e per la mamma morta, le alterò l'anima. Ma fu un attimo. Ritornò tosto in pace con sè, con tutti! Poi che aveva dimenticato la soave compagna della sua giovinezza, la madre della sua unica figliuola, il suo papà aveva diritto di riammogliarsi quando e con chi voleva. Giù, in salotto, zia Marta aveva una visita. C'era il signor Aldo Svarzi, che, da un poco, capitava spesso e si intratteneva a lungo con la signora Marta, che era amica di sua madre. A la vista di Lucia, il giovine si alzò, inchinandosi con atto inappuntabile, da persona che si fa un dovere di seguire l'ultima moda. «Stava a punto per mandarti a chiamare!—le disse la zia—Dove sei stata fino adesso, che sei sgusciata via tutt'a un tratto?… Il signor Aldo desiderava salutarti! Che lo desiderasse non c'era dubbio. Glielo si leggeva in volto; lo attestava il suo sorriso fatuo. Lucia si disse riconoscente a la gentilezza del signor Svarzi. Solo le spiaceva di non poter godere della sua compagnia; doveva uscire subito subito. La zia volle porre un ostacolo a quell'uscita che contrariava i suoi disegni e disse che Adele non avrebbe potuto accompagnarla. «Esco con Wise!—rispose la fanciulla, salutando con garbo che tradiva una certa impazienza. Il giorno era agli ultimi bagliori; ma in casa non si pranzava mai prima delle venti. Aveva tempo di fare un giro nel parco. Sentiva bisogno d'una boccata d'aria aperta, di sgranchirsi in mezzo al verde, di ritrovarsi fuori, sola con i propri sentimenti. Wise, felice, si lasciò adattare la musaruola lambendo la mano della padroncina. E tutti due infilarono il viale che si apriva subito al di là del giardino della villetta. Le piante frusciavano le vette nel rosso tramonto; i passeri cinguettavano rumorosamente appollaiandosi; alcune balie con i bimbi in collo o a mano rincasavano; le mammine in ritardo si affrettavano al ritorno con i piccini saltellanti. Su una panchina, a sedere con le mani su le ginocchia e il capo supino, un vecchio dal barbone bianco, guardava nel vuoto. Wise gli corse dinanzi abbaiando. Il povero guardò, stese timidamente la mano a la signorina, che gli diede la moneta del suo borsellino. «Grazie! pregherò per lei!—piagnucolò il vecchio, sorpreso a la carità di quelle monete, fra cui erano due venti centesimi di nikel. «Sì, pregate!—gli rispose Lucia salutandolo del capo. Dalla Chiesa del Corpus Domine, al di là di Porta Sempione, venivano i rintocchi dell'Ave Maria, che si diffondevano nell'aria come un invito a pensare al cielo. Il fischio della fabbrica sibilò la sua nota acuta. Era finita la giornata di lavoro; gli operai tornavano alle loro case; in famiglia. Lucia si rivolse a guardare. Primo ad uscire fu un signore alto e svelto, che prese frettolosamente a camminare a quella volta. Ella lo riconobbe e si sentì arrossire mentre infilava un viottoletto, fra i prati. Lo riconobbe anche Wise, che non svoltò, ma gli corse incontro abbaiando festoso. «Wise! qua!—ordinò Lucia rivolgendosi. E vide, a due passi, l'ingegnere Del Pozzo, che la guardava, forse un po' stupito di trovarla a quell'ora, lì sola con il cane. Si era fermato e l'avvolgeva del suo sguardo profondo, pieno di misteriosa espressione; quello sguardo che la fanciulla non poteva sostenere senza

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Argomenti: colore turchino,    tristo bagliore,    desiderio puro,    livido guizzo,    soave compagna

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