Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 4

Testo di pubblico dominio

sito deserto, da dove si distaccava una stradicciuola lungo un canaletto, in mezzo ai pioppi. Si discende, si prende la stradicciuola, un dopo l'altro in fila, si rasenta un muro di cinta, si picchia a un uscio, l'uscio si apre e ci troviamo in un orto pieno di pomidoro. Di là, dopo aver attraversata una scuderia e un cortile rustico pieno di galline, ci fecero passare per gli spianati che servono al giuoco delle boccie, e dopo, per una scaletta, fino alle sale del primo piano. L'oste della Fraschetta (ch'era stato avvisato fin dalla vigilia e che ci aspettava) c'introdusse segretamente in un bel camerone dipinto grossolanamente, dal quale aveva fatto togliere le tavole che ora si vedevano addossate al muro, —Procurino di far presto—susurrò l'uomo prudente. All'osteria della Fraschetta famosa nella storia delle scampagnate milanesi, specialmente in primavera, quando fioriscono le mammolette e gli amori delle sartine, c'è sempre vin buono, latte fresco, buon salame, un bel giardino, delle sale pronte e molta indulgenza per tutti i peccati di gola. L'oste, il sor Fabrizio, un ometto rossiccio con una piccola virgola al posto della barba, che porta gli anellini d'oro negli orecchi, non osa rifiutar mai nulla ai signori pubblicisti che gli possono restituire il cento per uno: e se due buoni amici della stampa desiderano, come nel caso nostro, farsi un occhiello nel ventre senza molto rumore, offre dietro un modesto compenso il suo salone, purchè si faccia presto e si conservi il segreto. Non vuole però armi da fuoco che tiran gente. La spada non fa mai troppo male e permette il più delle volte ai duellanti e ai padrini di rimanere a mangiare un'insalata e una dozzina d'ova sode cotte da Iside, la più seria ragazza che Dio abbia creato per imbrogliare i conti ai signori avventori. Quando entrammo in salone vedemmo vicino a una finestra, sotto la pittura di Guglielmo Tell che infilza il pomo, l'onorevole Dassi, i suoi due secondi e il suo dottore dalla barba solenne e dalla testa filosofica. Queste brave persone ci salutarono con un rispettoso segno del capo. L'oste chiuse l'uscio col paletto e se ne andò a far dare un fastello di fieno ai cavalli e un bicchier di vin bianco ai vetturali. Egli aveva collocato le sue sentinelle intorno alla casa, il guattero sull'uscio della cucina, la moglie sulla porticina dell'orto, Iside sulla porta della bottega colla consegna di tener a bada con ciarle, se mai capitavano, i carabinieri di ronda. Uomo prudente è colui che in una difficile circostanza sa fare in modo che le cose cattive finiscano bene e che sa tirare al suo molino la farina degli altrui spropositi. Un padre di famiglia deve avere più d'una campana nel cuore e bisogna che le lasci sonare un po' tutte, deve chiudere un occhio a tempo, o anche due, e anche le orecchie se può. Così deve contenersi un oste che ha una bella ragazza da maritare. Il Calchi e il cav. Magi, padrino dell'onorevole Dassi, cominciarono a contare i passi e a preparare il terreno, segnando delle righe in terra col carbone; su una tavola in fondo sotto la pittura del Guglielmo Tell che scappa dalla barca, gli altri due padrini confrontavano le sciabole, mentre i due medici nel vano d'una finestra stendevano sopra un banco pieno di mosche e di goccie secche di vino la batteria dei loro ferri chirurgici bianchi, lucenti, di cui andavano ripolendo l'acciaio fino sul panno della manica. Non mancavano le bende, il cotone fenicato e le ultime novità della fasciatura Lister. La testa nuda e filosofica del dottor Carone faceva un forte contrasto colla zazzera chiara e ben pettinata del dottor Sirchi; ma il più bel roseo sole di settembre, entrando per la finestra, scendeva come un'aureola a illuminare e a stringere in un caldo amplesso quei benemeriti sanitari, che si sacrificavano alle cinque del mattino a beneficio dell'umanità sofferente. Il tintinnio delle sciabole e dei bistori finì coll'irritare l'onorevole Dassi, un romagnolo impaziente che credeva d'aver aspettato fin troppo ai comodi nostri. Spadaccino di mestiero, era abituato a far presto. Entrava in giuoco colla furia scatenata di un pazzo e sia che ne dasse via, sia che ne pigliasse, voleva che non s'irritassero troppo i suoi nervi. Questa furia romagnola era il segreto di trionfi riportati contro avversari venti volte più bravi di lui. Tirato in disparte Massimo, lo pregai sottovoce di essere paziente e pedante in principio, se voleva disarmare l'avversario della sua forza più pericolosa, la furia. Non so se Massimo mi ascoltasse o no. Indicandoci le galline che razzolavano su un mucchio di strame, uscì colla strana osservazione che le galline hanno più buon senso di noi. —Sì, sì—dissi celiando—fin che non si lasciano spennacchiare e mettere in pentola. —Che cosa si dà al dottore in queste occasioni?—domandò dopo un momento. —Tu lo saprai meglio di me… —Mi son sempre battuto senza dottori, o c'era qualche amico che si prestava per piacere. Questo giovinotto non lo conosco e mi pare anche un dottore di lusso. —Capisci che non c'è una tariffa. Ognuno fa secondo le suo forze. —Per esempio? —Nel caso tuo io credo che se gli mandi una spilla infilzata in un biglietto rosso da cento, fai fin troppo. Avrai mille occasioni per rendergli un servigio. —Ti pare proprio abbastanza? —È giovine e si paga un poco coll'onore che gli si fa. Se scriverà un opuscolo sul modo di guarire la tosse alle pulci, gli potrai dare del distinto batteriologo sul tuo giornale.—Scherzavo per tener viva l'aria, per far ridere Massimo, che mi pareva alquanto depresso. —Bene, se crepo, fai piacere tu… To' la chiave. Andrai a casa mia, aprirai il cassetto del mio tavolino, troverai un libretto della Banca Popolare. Ci pensi anche alla spilla. Ci sarà da pagar l'oste, le carrozze…. —Adesso mi fai anche il testamento.—E alzando la voce come un deputato che protesta per la conculcata libertà statutaria, gridai:—Andiamo, perdio! qui si perde un tempo prezioso. —È ciò che dicevo anch'io—grugnì l'onorevole Dassi, che si raggirava per la stanza come un leone nella gabbia. E cominciò lui a togliersi la giacchetta, il panciotto, i polsini, il colletto, come se si preparasse per andare a dormire e finì col rimboccare le maniche della camicia fin sopra i gomiti. Allora mi avvicinai al colonnello Barconi, altro padrino del nostro avversario, per vedere se c'era ancora il mezzo di combinare una conciliazione o almeno di attenuare le condizioni dello scontro. Ma il colonnello per tutta risposta inarcò le ciglia e mi guardò strabiliato, come se gli avessi proposto di lavare la faccia alla luna. Pareva dire: Con chi parla? e si fanno sul terreno di queste proposte? e si osa farle a una persona rispettabile? a un soldato? ma in che mondo vive lei? non ha letto mai il più elementare trattato di cavalleria? non sa che ci sono dei codici stampati apposta per gli ignoranti come lei?—Tutte queste cose mi parve di leggere nell'arco delle ciglia e negli occhi sbarrati del colonnello: e non osai insistere. Massimo si tolse lentamente la giacca. Io gli detti una mano per tirargli di dosso il panciotto, (quello che gli aveva procurato la ramanzina della mamma) e attaccai il colletto e la cravatta alla maniglia della finestra. Non volle che gli si rimboccassero le maniche, perdio non era venuto, disse, a lavare scodelle. I padrini dettero un'ultima occhiata alle sciabole, il Barconi battè le mani e gridò: in guardia! Io non sono il Tasso e non starò quindi a descrivervi un duello. I due avversari sapevano tenere una sciabola in mano, non mancavano di coraggio, ma non erano così grandi maestri da insegnare a noi e tanto meno al colonnello qualche cosa di nuovo. Costui, a giudicare dagli occhi che faceva, dovette fremere subito nel suo cuore accademico di maestro di scherma tanto della furia sfrenata e scorretta dell'onorevole Dassi, quanto della pesantezza di mano di Massimo, che ai primi colpi

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Argomenti: uomo prudente,    orto pieno,    forte contrasto,    scherma tanto,    cuore accademico

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