Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 21

Testo di pubblico dominio

Chi ha qualche cognizione di spettroscopia sa che Federico Falci è oggi uno dei più stimati cultori di questa scienza, Ma pochi sanno che strano uomo sia nelle cose ordinarie della vita e come ogni avvenimento che esca un dito da' suoi studi basti a fargli perdere la sinderesi e a buttarlo in una tremenda confusione di spirito. Figlio di un portinaio di casa Gambarana, venuto su a forza d'ingegno, di studio e di sussidi di carità; costretto per molti anni a vivere nella soggezione di una mezza povertà, egli ama vivere nel suo guscio, tra i suoi libri, sotto la guida e la protezione di sua sorella, una donnona grassa, ignorante, tutta esperienza, che lo veste come un abate e lo mantiene come un ragazzo. Il Falci poco o nulla sa di quel che accade nel mondo politico e nel mondo elegante: poco o nulla legge di quel che si stampa fuori de' suoi libri e delle sue riviste irte di formole matematiche. Serafina pensa a vestirlo, a nutrirlo, a fargli la barba, a parlare, a rispondere per lui tutte le volte che cápita di trattare qualche piccolo interesse di famiglia e si persuade, l'ingenua donna, che i libri son fatti apposta per imminchionire gli uomini. Nell'animo suo la Serafina pensa che, se non ci fossero gli ignoranti a salvare il buon senso, il mondo diventerebbe in breve andare una gran gabbia di matti. Guai se la buona Serafina non pensasse a mettere in disparte tutti i mesi qualche soldo degli stipendi del suo Taddeo, il pover'uomo, a lasciarlo fare, ingolfato a leggere e a graffiare que' suoi libracci mezzo greci e mezzo turchi, si lascerebbe marcire la camicia indosso. Essa ha trovato apposta per lui il nome tondo di Taddeo, perchè le pare d'indicar meglio e di riassumere meglio con questo nome la bontà e la dottrina balorda di suo fratello scienziato. Delle passioni umane, oltre i libri, il Falci non ne conosce che una, per il suo caffè nero, quel buon caffè nero un po' lungo della Serafina, ch'egli beve caldo in una scodella larga di maiolica, come se fosse brodetto, e che lo tien alacre e sveglio tutta la notte sui libri, finchè i passeri vengono a saltellare sul davanzale e il sagrestano muove le campane della vicina chiesa. Dato un uomo di questa natura, è facile immaginare come la preghiera del Presidente gli dovesse orribilmente seccare. Oltre alla perdita di tempo, al pigliar freddo, al bagnarsi i piedi con tutta la neve ch'era caduta in terra, bisognava vestirsi di nero, mettersi in vista, leggere un discorso…. C'era da sudar caldo e freddo per un uomo come lui! Tuttavia nella sua docile obbedienza, che in fondo si riduceva a una grande incapacità di disobbedire, per non saper che scuse pescare, per paura di mancare a un sacro dovere, per rispetto al morto, accettò la rappresentanza. La Serafina tirò fuori dall'ultimo cassettone i calzoni neri, che mandavano un acre odore di canfora e di pepe, li sciorinò all'aria; poi dalla guardaroba cavò il palamidone di panno, preparò i guanti, la camicia di bucato, il cappello a cilindro, bello lucido e spazzolato, e suggerì anche qualche idea del discorso funebre. Il povero Taddeo, così dotto come sapete, così agguerrito di spettroscopia, era un pesce fuori dell'acqua messo a trattare di argomenti in cui entrasse un poco di sentimento e di bello stile. Col Cerbatti non si eran trovati che poche volte nella sala quasi oscura dell'Istituto e forse non gli aveva detto dodici parole in tutta la sua vita, Poco o nulla sapeva delle virtù che il morto aveva avute o avrebbe dovuto avere prima di morire, e nella sua fanciullesca ignoranza non pensava nemmeno a quel che tutti sanno, cioè che i morti hanno tutte le virtù possibili e specialmente quelle che non hanno avute. Ma la Serafina che era sempre il suo braccio diritto in tutte le contingenze, vedendolo più impicciato d'un pulcino nella stoppa, pensò d'andar lei in cerca di notizie. Uscì, cercò del bidello dell'Istituto, un suo vecchio vicino di casa, che la presentò al segretario: e dopo qualche ora tornò con un foglietto pieno di dati biografici e bibliografici che presentò al fratello dicendo: —Eccoti il tuo morto. Gianella dice che questo tuo scienziato era un avaro dannato, che non regalava mai un soldo di mancia a nessuno; ma non è necessario che tu lo dica nel tuo elogio. Dirai anzi il contrario, che aveva le mani buche, che aiutava i poverelli. Si dicon tante bugie per i vivi, che si può dirne una anche per un morto. E a questo proposito mi ricordo d'aver conservato l'elogio che hanno stampato a Lecco, quando morì quel nostro povero zio prete, che fu un gran mangiatore di libri anche lui e che a furia di libri morì pitocco come Giobbe. Penso che ci siano lassù dei periodi che possono andar bene anche per questo avaro. Ogni paio di calze e ogni camicia vanno bene ad un morto. Del resto Gianella mi ha anche detto che il tuo scienziato era sordo come una campana; per cui gli puoi cantare anche l'Epistola che lui non sente lo stesso. Con questi incoraggiamenti e coll'aiuto della necrologia stampata in onore dello zio prete, a furia di pestar nel calamaio colla penna, riuscì anche a Taddeo di mettere insieme trent'otto righe di belle parole non prive d'un certo suono, colla solita citazione del Foscolo: «Sol chi non lascia eredità d'affetti… Cominciava così:» Davanti a questa bara che racchiude i resti mortali del nostro compianto collega ed amico, la voce vien meno e altro non resta che di pronunciare un mesto addio a nome di quell'Istituto di cui egli fu gloria e ornamento… E finiva coll'epifonema:—Salve, spirito eletto! tu hai finito di soffrire in questa dolorosa battaglia della vita…. (Questa frase era tolta di peso dall'elogio dello zio prete morto dopo lunga malattia d'un cancro allo stomaco) …. Valga l'esempio delle tue nobili virtù d'incitamento a tutti noi, che abbiamo imparato alla tua scuola come si possa congiungere la scienza all'ideale, la modestia alla virtù, la costanza dei propositi alla bontà indulgente dell'animo. (Tutta roba rubata allo zio prete). * * * Serafina trovò il discorso fin troppo bello per un avaraccio, che non dava mai un soldo di mancia a nessuno. Vestì il suo Taddeo, lo spazzolò una volta più del solito, gli accomodò la cravatta, gl'infilò i guanti neri sui diti grossi come salamini e lo buttò fuori dell'uscio che già sonavano le nove e mezza, l'ora stabilita per il trasporto. Taddeo sceso in furia le scale e nella confusione di spirito in cui si trovava, invece di piegare a destra, nella direzione di San Giorgio, seguendo l'abitudine di tutti i giorni, voltò a sinistra verso Brera e l'Istituto. Non si accorse d'aver sbagliato, se non quando fu sulla porta del palazzo. Questo contrattempo aiutò a scombussolarlo ancor di più. Tornò in fretta sui propri passi e col suo andare sconnesso e frettoloso che gli dava l'aria d'un barile rotolato, passò in mezzo al gran via vai delle strade, coi pensieri arruffati, masticando macchinalmente la prima frase del discorso: «Davanti a questa bara» col fastidio di chi sente dolere il dente guasto mentre sale le scale del dentista. Non poteva quel benedetto Presidente incaricare qualche altro di questa faccenda? C'è della gente che va così volentieri ai funerali e par fatta apposta per accompagnare i defunti illustri, per far dei discorsi, per mettersi in vista come lampadari! C'è chi non manca mai al séguito d'un morto di talento, e ci tiene anzi a far sapere che c'è, a far mettere il nome sul giornale. A queste piccole fiere del dolore non manca mai chi ha da spacciare un residuo di vanità insoddisfatta. Ebbene, perchè non fanno una società di mutuo accompagnamento questi lampadari, che si accendono alla fiamma d'un illustre che se ne va, e perchè non lasciano stare in pace i poveri diavoli, che amano lavorare nel loro guscio? In queste idee ch'egli brontolava mentalmente insieme a frasi smozzicate dell'elogio funebre, il Falci arrivò alla casa del morto, in via dei Piatti; ma sentì che il

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