Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 27

Testo di pubblico dominio

semioscuro ambiente, provò qualche cosa nell'animo, come sarebbe la paura di cadere da un gradino che non c'è. Dalle due finestre d'angolo, che davano sulla piazza Castello, si vedevano i lampioni a gas, quasi soffocati dalla nebbia e dalla neve in un cerchio rossiccio. Le cupole bizantine del vicino teatro Dal Verme si appiattavano anch'esse nella notte, senza un respiro di luce, come la carcassa capovolta di un immane bastimento. Il salottino da pranzo, ben rischiarato da una lampada sospesa e ben caldo, scintillava di posate di pakfond, di saliere, di bicchieri nitidi, Sopra una scansia stavano schierate dodici bottiglie di diversi autori, qualcuna col collo d'argento, —Qui c'è odor di morto—disse don Procolo, allargando le nari al buon profumo dell'arrosto,—Gli faremo un funerale di prima classe. Erminia fece sedere don Procolo al posto d'onore. Fra lui e il Cavaliere pose la Paolina. Poi Battistone fra lei e il bimbo. Gli altri in seguito. Bebi, di sei mesi, dormiva in uno stambugietto vicino. —Immacolata!—gridò Carlinetto. —Chi è quest'Immacolata? —Vedrete. Una ragazza d'Airolo, un pezzo di montagna con vigna annessa. —Vi prego di dare il buon esempio—disse con un sorriso la padrona di casa. —Fuori l'Immacolata Concezione—gridò il prete. Venne la minestra fumante. Altro che pezzo di montagna! la povera ragazza, rossa abbruciata dal fumo della pentola e dalla vergogna, non sapeva come nascondere la faccia e come farsi sottile in certi passaggi stretti fra le sedie e il muro. La signora Erminia, al paragone delle altre due bellezze giovanili in fiore, risaltava ancor più bella per un certo languore di colori e di lineamenti. Quel sangue che mancava a lei lo aveva sulle guance Peppinotto, che scaldato anche lui dal fumo della pappa, pareva una bella ciliegia. Ma il più bello, il più raggiante, colui insomma, che poteva dar dei punti al sole, era Carlinetto (quell'asinaccio) colla sua fronte nuda e lucente, coi pochi capelli biondi irti sul cucuzzolo, avvolto nel tovagliolo come un sommo pontefice nel piviale. Il paradiso dei mariti gli sfavillava negli occhi, come un uomo che si sente appoggiato da una parte all'amore, dall'altra all'amicizia. Egli era il signore, il babbo e il nababbo di quelle donne e di quei bambini. Si sarebbe detto, a vederlo, che il pover'uomo, rannicchiandosi nella sua sedia, cercasse di rimpicciolire la sua dignità o di sfuggire a quel troppo di felicità che è sempre di cattivo augurio. —Cavaliere—gridò il padrone di casa—le mani davanti e gli occhi sul piatto. Voglio che Paolina sia garantita. —Allora si può pretendere che anche don Procolo metta i piedi sulla tavola. —Omnia munda mundis—esclamò il prete, che cominciava a sbrodolare la coscienza colla minestra calda. —E Battistone? a che cosa pensi, eccelso Battistone? al povero zio moribondo? Battistone rideva nella gola d'un riso grasso e affannoso. —Si possono conoscere questi grandi segreti?—gli domandò sottovoce l'Erminia. —No, no, cara signora, mi compatisca…—rispose il capitano, arrossendo come un ragazzo. —Io credo che il signor capitano sia un giusto calunniato, —Brava, la mi difenda. L'anima gentile e buona del capitano Tazza, perduta e impaurita nel fondo di quel suo gran corpo, risentiva nella voce di quella donna un eco della graziosa voce materna. Dopo tanti anni, dopo tante avventure di campo e di caserma, dopo molti smarrimenti per le vie del mondo, l'incontrarsi in una famiglia onesta il giorno di Natale, fra donne giovani e belle, nella confidenza di un domestico abbandono, gli tirava in mente i giorni più belli della sua infanzia, quando tutti siamo poeti per virtù d'inesperienza. Lilì, la cagnolina prediletta della signora Letizia, che Carlinetto allevava in casa in memoria della defunta, cominciò a piangere in cucina, dove l'avevano legata sotto la tavola, perchè non venisse a disturbare gli ospiti. Ma quando questi sentirono la ragione del castigo, non vollero permettere che in un giorno di tanta festa la povera bestiola non avesse il suo piattello a tavola. Lilì, un gomitolo di peli bianchi, venne a corsa, saltò in grembo a Paolina, appoggiò le zampette sulla tovaglia mugolando di gioia, fissando gli occhi lucidi e neri pieni di gratitudine in faccia al padrone. Man mano che i piatti e i bicchieri andavano vuotandosi, cresceva il rumore dei piatti e dei bicchieri. La suggezione scompariva da una parte e dall'altra. Alle facezie di don Procolo due o tre volte la Paolina dovette ridere e piangere nel tovagliolo, facendo due belle pozzette nelle guance. —Quando penso—osservò Carlinetto—che c'è della gente che va a cercare la felicità in America, provo una grande compassione. —Felix qui potest rerum cognoscere caussas—disse, alzando un poco la voce, don Procolo. —La felicità—disse il Cavaliere—fu definita da un filosofo un albero che bisogna abbattere chi vuole coglierne i frutti. —Ma Carlinetto—soggiunse il prete—è un gatto che sa arrampicare sulla pianta. —E chi vi proibisce di fare altrettanto, vecchi giovinastri? —I sacri canoni proibiscono ai preti di arrampicare. Che cosa ne dice la sora Paolina? —Io?—disse la ragazza tutta confusa. —Sì, sì, sentiamo il suo parere. —Che ne so io di piante e di frutti? —La biricchina vuol togliere le castagne dal fuoco colla zampa del gatto. —Eh no, vedete. Essa aspetta che i pomi caschino da sè. —Lor signori scherzano. —-Ebbene, sentiamo il parere della sora Erminia. —Su che cosa? —Sui pomi. —È Adamo che ha mangiato il pomo. —Bene, brava. Parli allora Carlinetto. —O che sono Adamo io?— In questi discorsi, a cui dava un sapore gustoso il ripieno del tacchino arrosto, e che sembrano inconcludenti soltanto a chi non ha mai posti i piedi sotto una tavola, la serata passava deliziosamente…. quando si udì improvvisamente una scampanellata così furiosa in anticamera, che fece trasalire i commensali. —Chi sarà a quest'ora?—disse Carlinetto. —Zitto—soggiunse l'avvocato—è l'ombra dello zio. —Va a vedere, Immacolata. —Che sia la sora Letizia?—pensò in cuor suo il prete.—In paradiso non si mangia di questa mostarda…. Immacolata aveva paura ed esitava a pigliare il lume. Una seconda scampanellata non meno furiosa della prima persuase Carlinetto a levarsi da tavola. Uscì e andò ad aprire. Intanto i commensali che erano arrivati al formaggio, rimasero immobili sulle loro sedie, colle bocche aperte, cogli orecchi intenti, quasi in pena, per paura di una qualche diavoleria che venisse a guastare la digestione. Udirono la voce di Carlinetto che gridava!—Le dico che non ne so nulla. —Ed io le dico che è qui…—rispondeva una voce sguaiata. Battistone si alzò improvvisamente, pallido come un morto e sconcertato come un ragazzo colto dal padrone sulla pianta dei fichi. Aveva riconosciuta la voce della Ludovina, la sua donna di servizio e la sua persecuzione, che non contenta d'aver accompagnato il padrone fino alla stazione, messa in sospetto, era venuta a cercarlo in casa di queste donne. —Non voglio portarlo via. Voglio soltanto dirgli che è un bugiardo. —Non mi faccia scappare la pazienza, benedetta donna. —Non lo porto via. Mi basta verificare ch'è un bugiardone come tutti gli altri…. Così dicendo, la donna cercava di mettere in disparte il padrone e di passar oltre; ma Carlinetto fu pronto a mettere la mano sulla chiave.—Oh insomma, vada fuori dei piedi….!—strillava colla sua voce di clarinetto. Battistone, confuso, impaurito, supplicava la signora Erminia perchè lo nascondesse in qualche angolo della casa; ma non trovando lì per lì niente di meglio, si cacciò ginocchioni sotto la tavola, appena a tempo. La Ludovina entrava sgarbatamente in sala col suo dito teso in atto d'accusare e di svergognare il brutto traditore; ma non trovandolo a tavola, rimase alquanto sconcertata e confusa. —Ecco, è persuasa ora che ha visto che non

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Argomenti: povero zio,    sommo pontefice,    vicino teatro,    certo languore,    riso grasso

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