Nuove storie d'ogni colore di Emilio De Marchi pagina 3

Testo di pubblico dominio

baci. —Chi è? chi è? chi è?—presi a dire con furia, colla voce affogata nei singhiozzi, mentre colla mano scendevo a cercare nella tasca di dietro un arlecchino rosso coi campanelli. —Chi è questa signorina?—E lei mi guardava cogli occhi larghi e curiosi come fanno tutti i bambini. —Chi è? chi è?—venne a domandare anche lei, la mammina, colla voce meno scossa, dentro la quale si sentiva ancora il tremito del pianto. —Chi è?—soggiunse la balietta, portando la bimba più sotto la lucerna e indicando me col dito. Letizia, mentre io pescavo l'arlecchino nella tasca di dietro, seguitò a guardarmi cogli occhioni neri, corrugò un poco la fossetta del mento, per uno sforzo interiore e, alzando in furia le manine, mandò fuori l'unica parola che sapeva dire—Papà…. L'arlecchino mi scivolò fuor delle dita e cadde in terra con un ciach…. fracassandosi la testa di biscuit. Io non me ne accorsi o cioè credetti che mi scoppiasse il cuore. Quel che si prova in certi momenti non si può dire in cent'anni. Fu un caldo e un freddo tutto in una volta, un trasudamento in tutta la persona, una vertigine, per resistere alla quale dovetti attaccarmi al braccio della Paolina che scossi, scossi, stringendo forte. Poi strappata la bimba alle mani della ragazza, me la portai alla bocca, come se morissi di fame, e cominciai a mangiarla. —Sì, mio povero angiolino, io sono il papà, e un papà che non ti vorrebbe meno bene del tuo vero papà, se la mamma permettesse. E ti farei giocare e saltare sui ginocchi e lavorerei per te… se la mamma volesse…. —Lei me la mangia per panettone….—prese a dire la Paolina, togliendomi la bimba dalle mani: e nel dire questo vidi che rideva al di sotto delle lagrime, un effetto di sole attraverso la pioggia, una bellezza da mettersi in ginocchio ad adorarla. * * * Si racconta che Sant'Ambrogio sia stato proclamato arcivescovo di Milano per bocca di un bimbo poppante, Questa è storia vera e ne hanno fatto dei quadri. Ebbene a Gerolamo Bacchetta capitò lo stesso. Ci sposammo presto e si fece una ditta unica. E se sant'Ambrogio fu soltanto arcivescovo, Gerolamo Bacchetta, ombrellaio all'insegna dell'Ombrellino rosso, fu nominato papa addirittura. Letizia è già la mia figliuola maggiore. * * * MEDICI E SPADACCINI MEDICI E SPADACCINI Il Calchi venne a casa mia prima delle quattro colla carrozza e mi trovò già quasi vestito e pronto. La mattina era bellissima, fatta più per una scampagnata che non per un duello. Non abituati a levarci col sole, noi poveri redattori d'un giornale del mattino, che andiamo a letto quando canta il gallo, ci sentivamo ancora la testa piena di sonno e di nebbia; ma un bicchierino d'acquavite svizzera, che all'amico parve una cosa spiritata più che spiritosa (il Calchi è famoso per questi giochetti di parole) finì col risvegliarci. In quattro salti scendemmo le scale e prima delle quattro e mezzo eravamo alla casa del giovine ed elegante dottor Sirchi. Era costui un bel ragazzo laureato di fresco, sempre inappuntabile nelle sue camicie, come di rado sono i signori medici. Mezzo letterato, mezzo artista, amico dei giornalisti, quasi sempre innamorato d'una qualche contessa tisica, cercava tutte le occasioni per mettersi in vista. Quale occasione migliore d'un duello, che avrebbe fatto le spese dei discorsi di tutta la città e riempita per lo meno una colonna di cronaca? Egli prese posto nella nostra carrozza e collocò sulle ginocchia la cassettina nuova de' suoi vergini ferri. Davanti alla casa di Massimo trovammo l'altra carrozza. Dato un fischio «come augel per suo richiamo» si aprì una finestra al terzo piano: Massimo mise fuori la testa, ci fece un segno e cinque minuti dopo le due carrozze uscivano da Porta Vigentina. —Come ti senti?—chiesi a Massimo ch'era salito nella mia carrozza. —Sono grigio—borbottò. —Che bella mattina! è di buon augurio—dissi per dir qualche cosa. —Ho dovuto dare a intendere a mia madre che andavo a Chiasso per l'inaugurazione della ferrovia. Quella benedetta donna è sempre in sospetto quando esco di buon'ora e quando mi sente tramestare nella camera. Sono entrato a salutarla e mi ha sgridato, perchè non ho messo il panciotto bianco sotto la cravatta nera. Povera vecchia! Massimo parlava tenendo gli occhi fissi sulla siepe, coll'aria astratta di chi parla in sogno. I manuali che in quell'ora mattutina vanno alla città, a lavorare, colla giacca di fustagno su una spalla e un pane misto sotto il braccio, si voltavano a guardar le due carrozze chiuse, che procedevano di corsa, almanaccando chi sa che romanzetto; e poi tiravan via al loro mestiere, che in fondo era migliore del nostro. Qualche ragazzaccio ci gridò; dietro: crèpa i sciori! —Sono entrato per salutarla, ma ero forse un po' troppo commosso. Non ho mai potuto correggere questo mio porco carattere…—Seguitò Massimo colla sua voce naturale, un poco velata e quasi affogata nella gola ampia e robusta. Quell'omone grande e grosso colla sua barba da brigante, colla sua corporatura da spaccalegna aveva un'anima più di buon papà, che non di scapolo avventuriere, di giornalista garibaldino e di focoso polemista. Come fosse entrato a far questo maledetto mestiero si spiega coi casi della vita, che sballottano un pover'uomo come le onde un turacciolo di bottiglia. Massimo era figlio del popolo. Sua madre, ortolana del verziere, aveva sempre avuta una banca d'erbaggi in piazza di Santo Stefano, che è come chi dicesse la city delle patate e dei piselli. Scoppiata la guerra, Massimo, che cominciava a provar la voce anche lui sulla bella magiostrina, andò con Garibaldi, fu nel Tirolo, a Bezzecca, si guadagnò due medaglie, poi passò in cavalleria. Ma sempre un po' ortolano d'animo e di maniere, si guastò presto coi superiori, che ne fecero un martire delle idee liberali. Tornato a casa, entrò in una tipografia, s'impiastricciò d'inchiostro, e siccome è detto che per fare il giornalista non è necessario saper scrivere, eccolo giornalista. Non cattivo ragazzo nel fondo, ma un poco frondeur, ebbe il suo quarto d'ora di celebrità durante il famoso processo Lobbia e fu appunto nello strascico di quelle polemiche che andò a urtare nell'onorevole Dassi, un fegatoso intransigente. Massimo osò scrivere che l'onorevole Dassi attingeva al pozzo nero dei fondi segreti, che si appoggiava alla stampa dei rettili, che era una spia della questura, anzi un questurino travestito addirittura. Se fossero vere o false queste accuse poco importa verificare; in certi momenti ciò che importa al giornalista è che ci sia della gente disposta a credere. L'onorevole Dassi aspettò Massimo sulla soglia del Biffi, e assalendolo di sorpresa, lo cresimò sulla gota destra proprio in mezzo al maggior concorso di gente. Massimo, sempre ortolano, rispose con uno sgozzone, che mandò l'onorevole a sedersi nella vetrina del caffè! Quindi un duello a condizioni un po' grave, come gravi erano state le provocazioni. Nella questione personale s'imperniavano molte questioni di principio e le passioni avevano bisogno di qualche sfogo. Tra le altre, un duello non poteva che far bene al nostro giornale che cominciava a calare. L'amico accese un mezzo sigaro, che lasciò subito spegnere. Tornò ad accenderlo tre o quattro volte di fila durante il viaggio, senza voglia di fumare. —Ho un cattivo presentimento stamattina—tornò a dire, —Fa piacere, bambino—esclamai un po' ruvidamente—non metterti al sentimentale. Se Dassi vuol farsi affettare come un salame, è nel suo pieno diritto. Massimo borbottò delle oscure parole, alzando le spalle. Del resto chi può sottrarsi a certi brividi interni che ci pigliano in questi momenti, quando si va sul terreno a giocar la vita colla punta della spada? non era il caso di parlar di paura con Massimo, ma la carne vuol dir la sua ragione. Per fortuna il viaggio fu breve. Mezz'ora dopo la nostra partenza da Milano, le due carrozze si fermarono in un

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Argomenti: arlecchino rosso,    sforzo interiore,    occasione migliore,    massimo mise,    panciotto bianco

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