Il fiore di Dante Alighieri pagina 6

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detto tutta la sentenza Di ciò che·ssaggio amante far dovria: Così l'amor di lor guadagneria, Sanz'aver mai tra·llor malivoglienza. Se mai trai di pregion Bellacoglienza, Sì fa che·ttu ne tenghi questa via, Od altrimenti mai non t'ameria, Che ch'ella ti mostrasse in aparenza. E dàlle spazio di poter andare Colà dove le piace per la villa; Pena perduta seria in le' guardare: Ché·ttu terresti più tosto un'anguilla Ben viva per la coda, e fossi i·mmare, Che non faresti femina che ghilla». LXXIII
L'Amante Così mi confortò il buon Amico, Po' si partì da me sanza più dire; Allor mi comincià' fort' a gechire Ver' Mala–Bocca, il mi' crudel nemico. Lo Schifo i' sì pregiava men ch'un fico, Ch'egli avea gran talento di dormire; Vergogna si volea ben sofferire Di guerreggiarmi, per certo vi dico. Ma e' v'era Paura, la dottosa, Ch'udendomi parlar tutta tremava: Quella nonn–era punto dormigliosa; In ben guardar il fior molto pensava; Vie più che·ll'altre guardi' era curiosa, Perciò che ben in lor non si fidava. LXXIV
L'Amante Intorno dal castello andai cercando Sed i' potesse trovar quell'entrata La qual Folle–Larghezza avea fondata, Per avacciar ciò che giva pensando. Allor guardai, e sì vidi ombreando Di sotto un pin una donna pregiata, Sì nobilmente vestita e parata Che tutto 'l mondo gia di lei parlando. E sì avea in sé tanta bellezza Che tutto intorno lei aluminava Col su' visaggio, tanto avea chiarezza; Ed un suo amico co·llei si posava. La donna sì avea nome Ricchezza, Ma·llui non so com' altri l'apellava. LXXV
L'Amante e Ricchezza Col capo inchin la donna salutai, E sì·lla cominciai a domandare Del camin ch'uomo apella Troppo–Dare. Quella rispose: «Già per me no'l sai; E se 'l sapessi, già non vi 'nterrai, Chéd i' difendo a ciaschedun l'entrare Sed e' nonn–à che spender e che dare, Sì farai gran saver se·tte ne vai: Ch'unquanche non volesti mi' acontanza, Né mi pregiasti mai a la tua vita. Ma or ne prenderò buona vengianza: Ché sie certano, se·ttu m'ài schernita, I' ti darò tormento e malenanza, Sì ch'e' me' ti varria avermi servita». LXXVI
L'Amante e Ricchezza «Per Dio, gentil madonna, e per merzede», Le' dissi allor, «s'i' ò ver' voi fallato, Ched e' vi piaccia ched e' sia amendato Per me, chéd i' 'l farò a buona fede: Ch'i' son certan che 'l vostro cuor non crede Com' io dentro dal mio ne son crucciato; Ma quando vo' m'avrete ben provato, E' sarà certo di ciò ch'or non vede. Per ch'i' vi priego che mi diate il passo, Ched i' potesse abatter il castello Di Gelosia, che m'à sì messo al basso». Quella mi disse: «Tu se' mio ribello; Per altra via andrai, ché sarà' lasso Innanzi che n'abatti un sol crinello». LXXVII
L'Amante e Dio d'Amore Già no·mi valse nessuna preghera Ched i' verso Ricchezza far potesse, Ché poco parve che le ne calesse, Sì la trovai ver' me crudel e fera. Lo Dio d'Amor, che guar' lungi no·mm'era, Mi riguardò com' io mi contenesse, E parvemi ched e' gli ne increscesse; Sì venne a me e disse: «In che manera, Amico, m'ài guardato l'omanaggio Che mi facesti, passat' à un anno?». I' gli dissi: «Messer, vo' avete il gaggio Or, ch'è il core». «E' non ti fia già danno, Ché tu·tti se' portato come saggio, Sì avrai guiderdon del grande afanno». LXXVIII
L'Amante Lo Dio d'Amor per tutto 'l regno manda Messaggi e lettere a la baronia: Che davanti da lui ciaschedun sia, Ad alcun priega e ad alcun comanda; E ch'e' vorrà far lor una domanda La qual fornita converrà che·ssia: D'abatter il castel di Gelosia, Sì ch'e' non vi dimori inn–uscio banda. Al giorno ciaschedun si presentò, Presto di far il su' comandamento: Dell'armadure ciaschedun pensò, Per dar a Gelosia pene e tormento. La baronia i' sì vi nomerò Secondo ched i' ò rimembramento. LXXIX
La baronia d'Amore Madonna Oziosa venne la primiera Con Nobiltà–di–Cuor e con Ricchezza: Franchigia, Cortesia, Pietà, Larghezza, Ardimento e Onor, ciaschedun v'era. Diletto e Compagnia seguian la schiera; Angelicanza, Sicurtà e Letezza E Solazzo e Bieltate e Giovanezza Andavan tutte impresso la bandera. Ancor v'era Umiltate e Pacïenza; Giolività vi fue e Ben–Celare E Falsembiante e Costretta–Astinenza. Amor si cominciò a maravigliare Po' vide Falsembiante in sua presenza, E disse: «Chi·ll'à tolto a sicurare?». LXXX
Costretta–Astinenza Astinenza–Costretta venne avanti, E disse: «E' vien comeco in compagnia, Ché sanza lui civir no·mmi poria, Tanto non pregherei né Die né ' santi; E me e sé governa co' sembianti Che gli 'nsegnò sua madre Ipocresia. I' porto il manto di papalardia Per più tosto venir a tempo a' guanti. E così tra noi due ci governiamo E nostra vita dimeniàn gioiosa, Sanza dir cosa mai che noi pensiamo. La ciera nostra par molto pietosa, Ma nonn–è mal nessun che non pensiamo, Ben paià·noi gente relegïosa». LXXXI
Dio d'Amor e Falsembiante Lo Dio d'Amor sorrise, quando udìo Astinenza–Costretta sì parlare, E disse: «Qui à gente d'alt' affare! Dì, Falsembiante, se·tt'aiuti Idio, S'i' ti ritegno del consiglio mio, Mi potrò io in te punto fidare?». «Segnor mio sì, di nulla non dottare, Ch'altro ch'a lealtà ma' non pens' io». «Dunqu' è cotesto contra tua natura». «Veracemente ciò è veritate, Ma tuttor vi mettete in aventura! Mai i·lupo di sua pelle non gittate, No·gli farete tanto di laidura, Se voi imprima no·llo scorticate». LXXXII
Dio d'Amore Amor disse a' baroni: «I' v'ò mandato Perch'e' convien ch'i' aggia il vostro aiuto, Tanto che quel castel si' abattuto Che Gelosia di nuovo à già fondato. Onde ciascun di voi è mi' giurato: Sì vi richeggio che sia proveduto Per voi in tal maniera che tenuto Non sia più contra me, ma si' aterrato. Ch'e' pur convien ch'i' soccorra Durante, Chéd i' gli vo' tener sua promessione, Ché troppo l'ò trovato fin amante. Molto penò di tòrrelmi Ragione: Que' come saggio fu sì fermo e stante Che no·lle valse nulla su' sermone». LXXXIII
Il consiglio della baronia La baronia sì fece parlamento Per devisar in che maniera andranno O la qual porta prima assaliranno; Sì fur ben tutti d'un acordamento, Fuor che Ricchezza, che fe' saramento Ch'ella non prenderebbe per me affanno, Néd al castel non darebbe già danno Per pregheria né per comandamento Che nessuna persona far potesse, Perciò ch'i' non volli anche sua contezza: Sì era dritto ch'i' me ne pentesse. Ben disse ch'i' le feci gran carezza Sotto dal pin, ma non ch'ancor vedesse Che Povertà no·m'avesse in distrezza. LXXXIV
L'ordinanze delle battaglie de la baronia Al Die d'Amor ricordaro il fatto, E disser ch'e' trovavar d'acordanza Che Falsembiante e Costretta–Astinanza Dessono a Mala–Bocca scacco matto; Larghezza e Cortesia traesser patto Con quella che·ssa ben la vecchia danza, E Pietate e Franchezza dear miccianza A quello Schifo che sta sì 'norsato; E po' vada Diletto e Ben–Celare, Ed a Vergogna dean tal lastrellata Ched ella non si possa rilevare; Ardimento a Paura dea ghignata, E Sicurtà la deggia sì pelare Ched ella non vi sia ma' più trovata. LXXXV
Lo Dio d'Amore Amor rispuose: «A me sì piace assai Che l'oste avete bene istabulita; Ma·ttu, Ricchezza, ch'or mi se' fallita, Sed i' potrò, tutte ne penterai. S'uomini ricchi i' posso tener mai, Non poss' io già star un giorno in vita, S'avanti che da me facciar partita Non recherò a poco il loro assai. Uomini pover' fatt' ànno lor sire Di me, e ciaschedun m'à dato il core: Per ch'a tal don mi deggio ben sofrire. Se di ricchezza sì come d'amore I' fosse dio, non possa io ben sentire Sed i' no·gli mettesse in gran riccore». LXXXVI
La risposta de la baronia «S'uomini ricchi vi fanno damaggio, Vo' avete ben chi ne farà vendetta: Non fate forza s'ella non

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