Il fiore di Dante Alighieri pagina 16

Testo di pubblico dominio

straccia. L'un l'altro abatte per forza di braccia. Non fu veduta mai tal trapresaglia, Che que' d'entro facien troppo gran taglia Di que' di fuor; Amor allor procaccia Che tra lor una trieva sì si faccia Di venti dì, o di più, che me' vaglia: Ch'e' vede ben che mai quella fortezza, Se·lla madre non v' è, non prenderebbe. Allor la manda a chieder per Franchezza. Contra colei sa ben non si terrebbe: Che s'ella il su' brandon ver' lor adrezza, Imantenente tutti gli arderebbe. CCXV
[...] Franchezza sì s'è de l'oste partita, E Amor sì·ll' à ben incaricato Che·lli dica a la madre ogne su' stato, Com' egli è a gran rischio de la vita, E che sua forza è molto infiebolita: Ch'ella faccia che per lei si' aiutato. Allor Franchezza sì à cavalcato, E dritto a Ceceron sì se n'è ita, Credendo che vi fosse la dïessa: Ma ell'er' ita in bosco per cacciare, Sì che Franchezza n'andò dritt' a essa. Sott' una quercia la trovò ombreare: Quella sì tosto in ginocchie s'è messa, E dolzemente l'ebbe a salutare. CCXVI
[...] «Molte salute, madonna, v'aporto Dal vostro figlio: e' priegavi per Dio Che 'l socorriate, od egli è in punto rio, Ché Gelosia gli fa troppo gran torto; Ch'e' nonn–à guar ched e' fu quasi morto 'N una battaglia, nella qual fu' io. Ancor si par ben nel visaggio mio, Che molto mi vi fu strett' ed atorto». Allor Venusso fu molto crucciata, E disse ben che·lla fortezza fia Molto tosto per lei tutta 'mbraciata; Ed a malgrado ancor di Gelosia Ella serà per terra rovesciata: No·lle varrà già guardia che vi sia. CCXVII
[...] Venusso sì montò sus' un ronzino Corsiere, ch'era buon da cacciagione, E con sua gente n'andò a Cicerone: Sì comanda che sia prest' al matino Il carro süo, ch'era d'oro fino. Imantenente fu messo i·limone E presto tutto, sì ben per ragione Che, quando vuol, puote entrar in camino. Ma non volle caval per limoniere Né per tirare il carro, anzi fe' trare Cinque colombi d'un su' colombiere: A corde di fil d'or gli fe' legare. Non bisognava avervi carettiere, Ché·lla dea gli sapëa ben guidare. CCXVIII
[...] Di gran vantaggio fu 'l carro prestato. Venusso ben matin v'è su salita, E sì sacciate ch'ell' era guernita E d'arco e di brandon ben impennato; E seco porta fuoco temperato. Così da Ciceron sì s'è partita, E dritta all'oste del figliuol n'è ita Con suo' colombi che 'l carr' àn tirato. Lo Dio d'Amor sì avea rotte le trieve Prima che Veno vi fosse arivata, Ché troppo gli parea l'atender grieve. Venusso dritta a lui sì se n'è andata, Sì disse: «Figliuol, non dottar, ché 'n brieve Questa fortezza no' avremo aterrata. CCXIX
[...] «Figliuol mi', tu farai un saramento, E io d'altra parte sì 'l faròe, Che castitate i' ma' non lascieròe In femina che aggia intendimento, Né tu in non che·tti si' a piacimento. Ed i' te dico ben ch'i' lavorròe Col mi' brandone: sì gli scalderòe Che ciaschedun verrà a comandamento». Per far le saramenta sì aportaro, En luogo di relique e di messale, Brandoni e archi e saette; sì giuraro Di suso, e disser ch'altrettanto vale. Color de l'oste ancor vi s'acordaro, Ché ciaschedun sapea le Dicretale. CCXX
[...] Venusso, che d'assalire era presta, Sì comanda a ciascun ched e' s'arenda O che la mercé ciascheduno atenda, Ch'ella la guarda lor tratutta presta. E sì lor à giurato, per sua testa, Ched e' non fia nessun che si difenda, Ch'ella de la persona no·gli afenda: E così ciaschedun sì amonesta. Vergogna sì respuose: «I' non vi dotto. Se nel castel non fosse se non io, Non crederei che fosse per voi rotto. Quando vi piace intrare a·lavorio, Già per minaccie no·mi 'ntrate sotto, Né vo' né que' che d'amor si fa dio». CCXXI
[...] Quando Venùs intese che Vergogna Parlò sì arditamente contr' a·llei, Sì gli à giurato per tutti gli dèi Ch'ella le farà ancor gran vergogna; E poi villanamente la rampogna, Dicendo: «Garza, poco pregerei Il mi' brandon, sed i' te non potrei Farti ricoverare in una fogna. Già tanto non se' figlia di Ragione, Che sempre co' figliuoi m'à guerreggiato, Ch'i' non ti metta fuoco nel groppone». Ed a Paura ancor da l'altro lato: «Ben poco varrà vostra difensione, Quand' i' v'avrò il fornel ben riscaldato». CCXXII
[...] Molto le va Venusso minacciando, Dicendo, se no·rendono il castello, Ched ella metterà fuoco al fornello, Sì che per forza le n'andrà cacciando. E disse: «A mille diavol' v'acomando, Chi amor fugge, e fosse mi' fratello! Perdio, i' le farò tener bordello, Color che l'amor vanno sì schifando: Chéd e' non è più gioia che ben amare. Rendetemi il castel, o veramente I' 'l farò imantenente giù versare; E poi avremo il fior certanamente, E sì 'l faremo in tal modo sfogliare Che poi non fia vetato a nulla gente». CCXXIII
[...] Venusso la sua roba à socorciata, Crucciosa per sembianti molto e fiera; Verso 'l castel tenne sua caminiera, E ivi sì s'è un poco riposata; E riposando sì ebbe avisata, Come cole' ch'era sottil archiera, Tra due pilastri una balestriera, La qual Natura v'avea compassata. In su' pilastri una image avea asisa; D'argento fin sembiava, sì lucea: Tropp' era ben tagliata a gran divisa. Di sotto un santüaro sì avea: D'un drappo era coperto, sì in ta' guisa Che 'l santüaro punto non parea. CCXXIV
[...] Troppo avea quell' imagine 'l visaggio Tagliato di tranobile fazzone: Molto pensai d'andarvi a processione E di fornirvi mie pelligrinaggio; E sì no·mi saria paruto oltraggio Di starvi un dì davanti ginocchione, E poi di notte esservi su boccone, E di donarne ancor ben gran logaggio. Ched i' era certan, sed i' toccasse L'erlique che di sotto eran riposte, Che ogne mal ch'i' avesse mi sanasse; E fosse mal di capo, o ver di coste, Od altra malatia, che mi gravasse, A tutte m'avria fatto donar soste. CCXXV
[...] Venùs allora già più non atende, Però ched ella sì vuol ben mostrare A ciaschedun ciò ched ella sa fare: Imantenente l'arco su' sì tende, E poi prende il brandone e sì l'accende; Sì no·lle parve pena lo scoccare, E per la balestriera il fe' volare, Sì che 'l castel ma' più non si difende. Imantenente il fuoco sì s'aprese: Per lo castello ciascun si fuggìo, Sì che nessun vi fece più difese. Lo Schifo disse: «Qui no·sto più io»; Vergogna si fuggì in istran paese, Paura a gra·fatica si partìo. CCXXVI
[...] Quando 'l castello fu così imbrasciato E che·lle guardie fur fuggite via, Alor sì v'entrò entro Cortesia Per la figliuola trar di quello stato; E Franchezz' e Pietà da l'altro lato Sì andaron co·llei in compagnia. Cortesia sì·lle disse: «Figlia mia, Molt' ò avuto di te il cuor crucciato, Ché stata se' gran tempo impregionata. La Gelosia aggi' or mala ventura, Quando tenuta t'à tanto serrata. Lo Schifo e Vergogna con Paura Se son fuggiti, e la gol' à tagliata Ser Mala–Bocca per sua disventura. CCXXVII
[...] «Figliuola mia, per Dio e per merzede, Aggie pietà di quel leal amante, Che per te à soferte pene tante Che dir no'l ti poria, in buona fede. In nessun altro idio che·tte non crede, E tuttora a·cciò è stato fermo e stante: Figliuola mia, or gli fa tal sembiante Ch'e' sia certano di ciò ch'or non vede». Bellacoglienza disse: «I' gli abandono E me e 'l fiore e ciò ch'i' ò 'n podere, E ched e' prenda tutto quanto in dono. Per altre volte avea alcun volere, Ma nonn–era sì agiata com' or sono: Or ne può fare tutto 'l su' piacere». CCXXVIII
[...] Quand' i' udì' quel buon risposto fino Che·lla gentil rispuose, m'invïai Ed a balestriera m'adrizzai, Ché quel sì era il mi' dritto camino; E sì v'andai come buon pellegrino, Ch'un bordon noderuto v'aportai, E la scarsella non dimenticai, La qual v'apiccò buon mastro divino. Tutto mi' arnese, tal chent' i' portava, Se di condurl' al port' ò in

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